- Le prove scritte sono state rinviate ad aprile 2021 e il ministero della Giustizia non ha alibi: c’è tutto il tempo per per organizzare al meglio lo svolgimento delle prove e delle correzioni per concludere tutto entro dicembre.
- Per ora, le proposte di riforma sono insoddisfacenti. Dovremmo prima capire le ragioni della crisi di vocazioni e come superare il nodo della mancanza di omogeneità di valutazioni sul territorio.
- Il sistema di accesso va sicuramente rivisto, ma l’accesso non è e non può essere lo strumento per fronteggiare le difficoltà e le contraddizioni della professione e della sua organizzazione.
Fermiamoci un attimo e riavvolgiamo il nastro.
La legge professionale del 2012 recita testualmente: “L’ordinamento forense favorisce l’ingresso alla professione di avvocato e l’accesso alla stessa, in particolare alle giovani generazioni, con criteri di valorizzazione del merito”.
La stessa legge recita anche che il periodo di tirocinio ha una durata massima di diciotto mesi; ciò al fine di favorire (analogamente a quanto previsto, sin dal 2011, per effetto dei decreti-legge del governo Monti, per le altre professioni regolamentate) l’ingresso degli aspiranti avvocati nel mondo del lavoro.
Dal 2012, quindi, il tirocinio può essere svolto per soli sei mesi presso lo studio di un avvocato, potendo, per i restanti dodici mesi, essere svolto negli altri modi previsti dalla legge (all’estero, presso l’Avvocatura dello Stato o gli uffici giudiziari, con la frequenza delle scuole di specializzazione per le professioni legali).
Inoltre, sei mesi del tirocinio possono essere svolti durante l’ultimo anno del corso di laurea in giurisprudenza.
Nel 2022 entreranno in vigore (per completare l’assetto della pratica forense voluta dal legislatore del 2012) le norme che introducono la frequenza obbligatoria di corsi di formazione per diciotto mesi e quelle che prevedono lo svolgimento delle tradizionali prove scritte senza codici annotati con la giurisprudenza.
IL MINISTERO NON HA ALIBI
Infine, l’esame finale di abilitazione non è stato in alcun modo riformato dalla novella del 2012: abbiamo ancora tre prove scritte e una prova orale.
Questo è il quadro di insieme intorno al quale ruotano le polemiche di questi giorni sul rinvio alla primavera prossima (13, 14 e 15 aprile 2021), causa l’emergenza da Covid-19, delle prove scritte dell’esame di abilitazione, sessione 2020-2021, previste come di consueto nel mese di dicembre di ogni anno, e sull’avvio, in Commissione Giustizia della Camera, della discussione su due disegni di legge di riforma del tirocinio forense e dell’esame di stato.
Il rinvio delle prove scritte previste per questo mese, inevitabile per oggettive carenze e difficoltà organizzativo-sanitarie, ha il pregio di sottrarre l’ultimo alibi al ministero della Giustizia: c’è tutto il tempo (anche questa volta) per organizzare al meglio lo svolgimento delle prove scritte, potenziare le commissioni e calendarizzare da subito i tempi per la correzione degli elaborati scritti e per lo svolgimento delle prove orali, sfruttare al massimo le potenzialità dell’attività da remoto dove possibili, assicurare il completamento la fine delle prove entro la fine di dicembre del prossimo anno.
LE PROPOSTE DI RIFORMA SONO INSODDISFACENTI
Quanto alle proposte di riforma all’esame della Commissione Giustizia, assistiamo ad un confronto un po’ ruffiano e un po’ ipocrita.
Ruffiano perché non giova alla causa delle giovani generazioni l’atteggiamento di chi, tra proponenti e sostenitori dei disegni di legge, sfrutta la comprensibile “rabbia” degli aspiranti avvocati per il rinvio delle prove d’esame e il generale caos pandemico per offrire soluzioni (riduzione del numero delle prove scritte) che in realtà non superano le criticità dell’attuale esame di abilitazione: 1) l’assenza di garanzie che la correzione degli elaborati scritti e lo svolgimento delle prove orali avvengano con criteri omogenei a livello nazionale e 2) l’inefficacia di prove ormai anacronistiche a valutare la preparazione dell’aspirante avvocato.
Ipocrita perché è dominante l’idea di fondo dell’indispensabilità del dominus, mista alla convinzione che tutti i giovani che si laureano sono impreparati e non sanno scrivere e che solo quella domestica è vera preparazione.
Nel 2014 i candidati all’esame erano 34.883, nel 2019 sono stati 22.200; il numero dei praticanti diminuisce costantemente. Dovremmo capire le ragioni di questa crisi di vocazioni; dovremmo anche interrogarci su come funziona oggi la professione e come superare il nodo della mancanza di omogeneità di valutazioni sul territorio nazionale in un esame gestito dall’avvocatura.
All’esito, intervenire con il supporto della politica e del legislatore.
IL PUNTO È IL SISTEMA DI ACCESSO ALLA PROFESSIONE
Soffermiamoci un attimo sul sistema di accesso alla professione, una volta in vigore a pieno regime. In primis, la frequenza di uno studio professionale per diciotto mesi (nelle varie modalità descritte all’inizio).
Contemporaneamente, sempre per diciotto mesi, frequenza obbligatoria di scuole a numero programmato, due verifiche intermedie alle quali si accede solo con la frequenza (almeno) dell’ottanta per cento delle lezioni e il cui mancato superamento comporta la ripetizione dell’ultimo ciclo semestrale, una verifica finale alla quale si accede solo con la frequenza (almeno) dell’ottanta per cento delle lezioni di ogni semestre e il cui mancato superamento impedisce il rilascio del certificato di compiuta pratica.
Infine, esame di abilitazione con tre prove scritte senza codici annotati con la giurisprudenza e una prova orale.
Ebbene, in quale modo l’ordinamento forense “favorisce l’ingresso alla professione di avvocato e l’accesso alla stessa, in particolare alle giovani generazioni, con criteri di valorizzazione del merito”? La sola riduzione del numero delle prove scritte può favorire l’ingresso nel mondo del lavoro?
Un’ultima domanda: se l’idea di formazione domestica è quella di una “formazione per sempre”, perché questo mantra si dissolve una volta acquisita l’abilitazione e, da quel momento in poi, formazione ed aggiornamento professionale dovrebbero essere assicurati da un sistema di “crediti annuali” o “punti miralanza” fai da te, senza alcun controllo o verifica intermedia o finale?
Fermiamoci un attimo, facciamo le persone serie.
Il sistema di accesso va sicuramente rivisto, ma l’accesso non è e non può essere lo strumento per fronteggiare le difficoltà e le contraddizioni della professione e della sua organizzazione.
Le vecchie ricette, i ricordi, i luoghi comuni non bastano più; a noi serve innanzitutto studiare, comprendere, guardare lontano. E un po’ di autocritica non guasterebbe.
In gioco c’è il futuro delle generazioni che verranno.
Luigi Pansini