Intervento del segretario Pansini sul n° 17 di Guida al Diritto
L’elemento che ha caratterizzato tutte le celebrazioni di inaugurazione dell’anno giudiziario va individuato nell’inaffidabilità dei numeri e delle statistiche.
Il Ministero della Giustizia, con i suoi rappresentanti, ha elencato i risultati conseguiti, pur tra mille difficoltà e sulla base dei rilievi degli uffici statistici ministeriali; i presidenti di corte d’appello hanno lamentato i risultati mancati tra penuria di risorse umane ed economiche e numeri dei procedimenti che affluiscono direttamente dalle cancellerie centrali.
L’Avvocatura istituzionale ha giustamente rivendicato la sua presenza nei consigli giudiziari e si è presentata come nuovo soggetto in grado di guidare il paese, dimenticandosi però dei Colleghi, del contesto in cui essi operano e del futuro delle giovani generazioni.
E allora, partiamo dal contesto generale per eccellenza: il processo.
L’idea di processo civile contenuta nel DDL Berruti spinge per la specializzazione del magistrato togato su materie che le nuove dinamiche della società italiana, collocata anche in realtà sovranazionali, disegnano.
Anche l’annunciata revisione geografica delle corti di appello sembra rispondere alle medesime esigenze.
La riforma della magistratura onoraria, poi, con la previsione, tra le altre, che il semplice laureato possa assicurare “giustizia” e con l’ampliamento delle competenze civili e penali e l’introduzione di nuove competenze esclusive, delinea un diverso circuito per la tutela di diritti differenti da quelli la cui trattazione è riservata alla magistratura togata.
Si discute, inoltre, della distinzione tra “diritti forti” e “diritti deboli”, anche alla luce del nuovo rito dinanzi alla corte di legittimità, e delle “questioni di modesta entità” (cd. small claims), tutte da individuare, da non portare all’attenzione dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria ma da affidare a giudici onorari ad hoc.
E infine, gli istituti bancari possono realizzare il proprio credito senza ricorrere al processo esecutivo, prende vita un nuovo rito ordinario sommario per la trattazione semplificata di tutti i procedimenti, si diffonde sempre più la pronuncia ex art. 281-sexies cpc senza le difese conclusive delle parti, è venuto meno il giudizio di appello nei procedimenti in tema di immigrazione.
Anche in ambito penale, si avvertono i primi segnali di analoghe trasformazioni.
Non è questa la sede per discutere, analizzandone l’impatto nella società, di un futuro assai vicino in cui le controversie saranno definite non necessariamente da un giudice e in luoghi anche diversi dalle aule dei tribunali, ma qualche considerazione sul ruolo dell’Avvocatura in questa era di mutamenti nell’idea di giurisdizione e giustizia è necessaria perché riguarda il contesto tradizionale in cui l’Avvocato ha da sempre operato.
L’Avvocatura è rimasta silenziosa, a tratti impotente ed incapace, a tratti accondiscendente; oggi, cerca di rifarsi il trucco sposando senza riserve l’idea di una giurisdizione forense dai contorni indefiniti ed abbandonando la difesa del processo o, nella migliore delle ipotesi, portando a casa il risultato (in termini di riforme processuali) meno peggiore.
Una resa quasi incondizionata, al punto che il Guardasigilli può tranquillamente affermare in tv che un processo civile in Italia dura, in media, 367 giorni.
Uno tra i più recenti tentennamenti dell’Avvocatura (le lenzuolate di Bersani sono sempre vive nella mente) è legato all’introduzione dell’istituto della mediazione, accolto tout court perché fosse approvata la nuova legge ordinamentale forense, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
La mediazione è ancora vista, anche terminologicamente, solo ed esclusivamente in chiave deflattiva, senza massicci incentivi fiscali e praticando una politica di senso opposto a quella del necessario radicamento culturale dell’istituto, e con un ruolo invasivo della magistratura che la “sfrutta” per decongestionare i ruoli; la legge professionale forense del 2012 si è rivelata inutile e i regolamenti attuativi più importanti sono stati dichiarati illegittimi o addirittura rimessi alla Corte Costituzionale.
Alla mediazione sono seguiti la negoziazione assistita, l’arbitrato deflattivo, le camere arbitrali forensi; ulteriori forme di ADR presentate altresì come la grande opportunità per l’Avvocatura di gestire parte della giurisdizione e di rovesciare i termini del dibattito sul numero degli avvocati quale nuova risorsa del paese e non come un male da debellare.
Accettando la sfida, l’Avvocatura ammette, però, senza giri di parole, che lo Stato ha appaltato a terzi il servizio giustizia, o l’ha privatizzato o dismesso, e che non vi è più ragione di dolersi se le continue riforme sui riti sono sempre meno orientate verso il processo.
Ma la giurisdizione forense, se affidata all’Avvocatura, deve fare i conti con le esigenze, le aspirazioni e il futuro degli Avvocati: reddito, nuove competenze, oneri previdenziali , pensione.
E sotto questo aspetto, che costituisce il rovescio di una medaglia i cui lati rispondono allo storico connubio avvocato-(nel)processo, i piani di discussione, per il momento, non si allineano.
Infatti, messa da parte l’Avvocatura delle grandi law firm e nonostante il dato del leggero miglioramento dei redditi che Cassa Forense ha pubblicato pochi giorni fa, la nostra professione è tuttora alle prese con una lunga e faticosa reazione alla crisi economica e strutturale che l’accompagna da anni e con il difficile superamento delle contraddizioni interne all’Avvocatura che la crisi ha amplificato.
E i più accesi sostenitori della giurisdizione forense faticano a spiegare come tale circuito possa tradursi anche in termini di opportunità di reddito, pensione e futuro, per i Colleghi.
Dal Ministro Orlando e dal Consiglio Nazionale Forense, nel corso dell’inaugurazione del 14 febbraio scorso, nessun accenno alle reali condizioni dell’Avvocatura e, alle prospettive future; anzi, vi è da registrare addirittura un passo indietro rispetto alle aperture dell’anno scorso del Guardasigilli in tema di società tra avvocati e regolamentazione delle forme di lavoro dei colleghi che hanno come unico cliente lo studio presso il quale lavorano.
In Europa gli avvocati sono imprese che erogano servizi; noi, invece, rifuggiamo tale parificazione ma facciamo battaglie per accedere ai fondi europei.
Resistiamo inspiegabilmente alle società di capitali tra avvocati ma siamo impotenti rispetto agli outlet legali e a forme di organizzazione della professione che si affermano rapidamente e che danno per acquisita l’idea del capitale.
Chiude il cerchio il Ddl Rordorf approvato in prima lettura in parlamento, che addirittura assoggetta anche i professionisti alle procedure di crisi e sovra indebitamento.
Sullo sfondo, i tamburi rullano per le difficoltà legate al reddito e alla previdenza e per la necessità di nuove competenze non al ribasso, mentre si trascura la necessità di una visione a lungo termine della società nella quale l’Avvocatura opera: una società in futuro più povera porterà ad un maggiore impoverimento anche dell’Avvocatura.
Questi i temi della conferenza di medio termine che l’Associazione Nazionale Forense, anche per celebrare i suoi primi vent’anni, terrà a Bari nel prossimo mese di giugno.
Una diversa figura di Avvocato si è delineata da tempo indipendentemente dalla sua assimilazione alla nozione di impresa di origine comunitaria ed è mutato il contesto socio-giuridico in cui questi opera; allora, chiamiamo le cose con il loro nome, decliniamo le proposte e governiamo la trasformazione in atto. È nostro dovere provarci.