La concorrenza squarcia il velo dell’ipocrisia

Di Luigi Pansini (Segretario generale A.N.F.) –

La legge annuale per il mercato e la concorrenza del 4.8.2017, n. 124, è la benvenuta.

Le pagine di giugno e luglio de Il Sole 24 Ore hanno dato spazio ad un bel confronto sul rapporto tra professioni, concorrenza e mercato, e questa rivista ha già ospitato un primo commento all’indomani dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni.

Letture quanto mai utili perché confermano che la legge n. 124 del 2017, adottata dopo quattro anni e mezzo dall’entrata in vigore della legge ordinamentale forense n. 247 del 31.12.2012 ha squarciato definitivamente il velo dell’ipocrisia dell’Avvocatura sul tema della concorrenza e delle società di capitali.

Infatti, soffermandosi sull’opinione di chi è contrario alle società di capitali tra avvocati e secondo la quale solo con la qualità della formazione, l’aggiornamento continuo e la specializzazione (la cui necessità non è in discussione) possono essere vinte le molteplici sfide della professione, torna alla mente dei più attenti il refrain con cui si esaltavano le positività della nuova legge professionale prima della sua approvazione: aggiornamento continuo, qualità della formazione, specializzazioni, deontologia, tirocinio ed esame di stato saranno – si sosteneva – i baluardi che lanceranno nel futuro l’Avvocatura e la metteranno al riparo da spinte esterne e sovranazionali che la vogliono assimilata all’impresa e al mercato intaccandone indipendenza ed autonomia di pensiero.

Ma, se nel 2012 una valutazione empirica del nuovo ordinamento forense era impossibile nonostante molti (con l’Associazione Nazionale Forense in prima fila) ne avessero segnalato le criticità, oggi il giudizio sui “baluardi” della legge professionale poggia su fatti e dati alla mano ed è impietoso.

Formazione e aggiornamento continuo: la legge e il regolamento attuativo del Consiglio Nazionale Forense vengono sistematicamente violati con eventi dagli effetti retroattivi, con offerte da supermercato o con manifestazioni in piazza per la raccolta di crediti formativi (altrimenti detti in alcuni corridoi istituzionali forensi “punti Miralanza”), nel silenzio di chi fa della deontologa la punta di diamante della professione e di chi, sotto il profilo disciplinare, quello norme dovrebbe farle rispettare.

Codice deontologico e procedimento disciplinare: i consigli distrettuali di disciplina funzionano poco e male e il Consiglio Nazionale Forense, giudice di secondo grado, non ha ancora costituito la sezione ad hoc prevista dalla legge.

Tirocinio, accesso ed esame di stato: l’ossessione per i numeri dell’Avvocatura spinge per l’introduzione di novità il cui cardine è rappresentato dal numero chiuso o dagli accessi selezionati o programmati e non da una precisa volontà di favorire le giovani generazioni e agevolarle nell’esercizio della professione, così come prescritto dall’art. 1 della L. 247/12.

Specializzazioni: il titolo di avvocato specialista lo si potrà conseguire con la semplice frequentazione di un corso e senza la necessaria esperienza sul campo mentre le materie oggetto di specializzazione sono tuttora al vaglio del Consiglio di Stato.

Questi sono i baluardi e i pilastri della professione forense necessari per vincere le sfide di oggi e di domani e che dovrebbero – o avrebbero dovuto – costituire il solo e valido contraltare all’introduzione delle società di capitali tra avvocati e tra questi e altri professionisti?

Prenderci in giro equivale a non essere credibili e, se non è credibile, l’Avvocatura non sarà mai autorevole.

La verità è che il castello della legge ordinamentale forense n. 247 del 2012 sta venendo giù miseramente e che la L. 124/17 è la classica foglia di fico: le difficoltà di applicazione, gli interventi della magistratura, le misure che vengono introdotte a latere dal legislatore e il più completo disinteresse da parte di chi l’ha voluta evidenziano giorno dopo giorno l’inutilità della legge n. 247 del 2012 contraddistinguendola, negativamente, come vero e proprio limite all’esercizio della professione.

La Commissione Europea, ad inizio 2017, ha presentato una proposta di direttiva EU relativa ad un test di proporzionalità prima di una nuova regolamentazione delle professioni: la finalità è quella di eliminare ogni restrizione al loro esercizio che non sia dettata da motivi imperativi di interesse generale; le raccomandazioni rivolte all’Italia, con riferimento a quella forense, riguardano la necessità di “garantire che la formazione e l’esperienza acquisite all’estero siamo debitamente prese in considerazione in modo che gli avvocati possano avere accesso ai tirocini”, di “riesaminare la giustificazione e la proporzionalità del requisito introdotto di recente che prevede il trattamento di almeno cinque affari all’anno” e di “chiarire i requisiti che limitano l’esercizio della professione, come ad esempio, l’ampio campo di applicazione della norma in materia di incompatibilità, soprattutto nel caso di professioni con norme deontologiche simili quali, per esempio, i consulenti in proprietà industriale”.

Ciò nonostante, l’atteggiamento prevalente è quello di nascondere la testa nella sabbia.

Il contesto generale spinge per nuove forme di organizzazione del lavoro e di aggregazione di professionalità diverse tra loro e chi manifesta sdegno e preoccupazione per le società di capitali (le reazioni tragiche e apocalittiche sul preventivo obbligatorio vanno semplicemente ignorate), da un lato, preferisce dimenticare che una delega al governo per la loro regolamentazione era contenuta nella legge professionale, che il suo mancato esercizio è stato – per i più – motivo di sollievo e non di rammarico, che alcuni colleghi hanno già optato per una società cooperativa e che altri ancora hanno indotto le Sezioni Unite della Cassazione (l’ordinanza è di giugno scorso) ad una ricognizione legislativa e giurisprudenziale in materia prima di decidere su una richiesta di iscrizione all’albo di una società; dall’altro, confida addirittura in una futura pronuncia di incostituzionalità delle disposizioni appena entrate in vigore.

Mettiamoci pure quel sentimento di autocommiserazione di cui ci nutre il calo dei redditi e la crisi dell’Avvocatura diventa terreno ideale per alimentare mistificazioni di ogni tipo su organizzazione del lavoro e tutela dei diritti, ampliamento delle competenze e processo, opportunità ed indipendenza di giudizio, rilievo costituzionale e funzione sociale.

La domanda però sorge spontanea: perché questa continua ed ostinata difesa di ciò che oramai è indifendibile?

Ecco alcune possibili risposte: il reddito, con il 15% degli studi legali che controlla il 65% del fatturato del settore; il networking nepotista, con il 40% dei professionisti che ha il papà professionista nello stesso settore; la paura dello smantellamento dell’attuale assetto corporativo di controllo sulla formazione e l’aggiornamento continuo, sui tirocini e gli esami di stato (Il Sole 24 Ore, 22.6.2017). Ulteriore elemento: l’eccessiva regolamentazione, che concorre a creare diseguaglianze di reddito e a frenare la crescita di professionisti (Commissione Europea, rapporto del 10.1.2017).

Le risposte alla domanda posta risiedono, cioè, nella natura fortemente auto-conservatrice dell’Avvocatura e del suo sistema ordinistico. Possiamo tranquillamente aggiungere che la legge ordinamentale del 2012 ne è la sua perfetta rappresentazione e, nel contempo, il mezzo con il quale molti vogliono garantirne la sopravvivenza.

Ben venga, allora, una legge per il mercato e la concorrenza: è l’ennesimo varco nel muro delle contraddizioni della nostra professione che individua chi, nell’Avvocatura, vuole superarle governando i cambiamenti in atto e chi resiste in nome di chissà che cosa. 

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