L’Avvocatura italiana – in un momento storico in cui le professioni intellettuali, già interessate negli ultimi due decenni da profonde trasformazioni, sono destinate a riconsiderare ancora una volta i loro orizzonti, le loro aspettative e i loro progetti per il futuro – è dinanzi a un bivio: optare per un sentimento di conservazione, di chiusura, di spirito di nuova corporazione; oppure optare per la possibilità – non certezza – di cambiare, favorendo la crescita e una professione migliore all’interno di un perimetro di non sola giurisdizione che deve contribuire a realizzare.
La scelta dev’essere chiara, netta, perché la risposta alle difficoltà di questi anni non è stata quella di allungare il passo ma quella di accorciare la distanza che doveva essere percorsa, rinunciando a qualsiasi visione prospettica e prediligendo il meno peggio che poteva arrivare dalle scelte della politica, del legislatore nazionale e comunitario, del sistema economico.
Su queste premesse, è difficile dire se a Catania, nella tre giorni del XXXIV congresso nazionale forense di inizio ottobre, l’Avvocatura abbia imboccato almeno una strada e se quella imboccata sia giusta.
All’ordine del giorno argomenti d’attualità: società di capitali per l’esercizio della professione forense, avvocato dipendente, processo civile, misure fiscali a sostegno dei professionisti.
Rispetto ad alcuni di essi (società di capitali e avvocato dipendente), l’approccio in questi anni di gran parte dell’Avvocatura è stato assai curioso; da un lato, si è fatto continuamente ricorso al leitmotiv più facile e “populista”, quello del calo dei redditi, e, dall’altro, è stata sistematicamente rifiutata l’idea che le collaborazioni tra avvocati, anche nelle forme più diverse, compresa quella della dipendenza da altro avvocato, e le aggregazioni in forma societaria possano rappresentare, sapientemente regolamentate, uno strumento e un’opportunità per la crescita professionale e il miglioramento del dato reddituale.
La risposta dell’assise catanese al riguardo c’è stata, e non poteva essere altrimenti, anche se nelle mozioni approvate dominano ancora un sentimento di paura e un’anacronistica difesa del passato.
Il documento sull’avvocato in regime di mono-committenza era doveroso, il fenomeno è sotto gli occhi di tutti; tuttavia, si limita a recepire una realtà delle collaborazioni professionali già esistente e regolamentata da tempo dalle parti, anche sotto il profilo delle garanzie (malattia, infortunio, recesso, gravidanza, ecc.), trascurando invece la necessità di regolamentare il rapporto di subordinazione di un avvocato solo rispetto ad altro avvocato quale eccezione al regime delle incompatibilità previsto dall’art. 18 della L. 31.12.2012, n. 247, e quale presa d’atto di un fenomeno esistente al pari delle “semplici” collaborazioni tra professionisti, ma forse meritevole di maggiore attenzione.
Sulle società di capitali si è registrata la netta contrarietà rispetto al socio di capitale, mascherata – nella mozione approvata – da una serie infinita di paletti e contromisure che, pur in presenza di una disciplina vigente sicuramente da migliorare, denotano la forte ritrosia rispetto a nuovi strumenti e nuove forme di organizzazione del lavoro che oggi riguardano tutte le professioni, regolamentate e non.
Insomma, a fronte di mutazioni della professione a velocità smisurata, il congresso ha preso sì consapevolezza del loro continuo incedere ma le ha “rallentate”, vivendo più al riparo delle cose da salvare che della necessità di immaginare il futuro dell’Avvocatura.
Fortunatamente, qualche giorno fa il Consiglio di Stato ha dato via libera al decreto con cui il Ministro della Giustizia ha differito al 31 marzo 2020 l’obbligatorietà dei corsi di formazione per la pratica forense prevista dalla legge ordinamentale e dal decreto attuativo di febbraio scorso.
Il rinvio disposto va di pari passo con l’ulteriore rinvio, al 2019, dell’esame di abilitazione senza codici annotati.
La novità più importante, tuttavia, risiede nella volontà del Ministro Bonafede, annunciata proprio a Catania e richiamata dai giudici di Palazzo Spada nel loro parere, di voler riformare l’intero sistema di accesso alla professione.
Rivedere le norme su tirocinio forense ed esame di abilitazione è una priorità oramai ineludibile; è, allo stesso tempo, il primo passo della necessaria riscrittura della legge professionale del 2012 (n. 247), che, a soli cinque anni dalla sua entrata in vigore, ha già mostrato tutti i suoi limiti.
Le aggregazioni professionali e multidisciplinari, le collaborazioni nelle più diverse estrinsecazioni (compreso il rapporto subordinato alle dipendenze di altro avvocato), le specializzazioni, unite alla riforma dell’accesso e della legge ordinamentale, sono le tessere di un mosaico di misure e strumenti funzionali alla crescita della professione, al miglioramento del reddito, al riconoscimento del ruolo e della funzione dell’Avvocato autonomo, libero e indipendente; questa è la proposta dell’Associazione Nazionale Forense.
E l’Avvocato in Costituzione? La risposta non è semplice né scontata.
Nessuno può dirsi contrario all’Avvocato in Costituzione; tuttavia, le perplessità di natura sistematica sulla modifica di una norma costituzionale, peraltro già autorevolmente espresse sulle pagine di questa rivista, non mancano.
Alle perplessità si affianca anche il timore che l’Avvocato in Costituzione “nasconda”, per il futuro della professione, quegli stessi effetti largamente tangibili di cui era ammantata, secondo i più strenui sostenitori, la legge ordinamentale del 2012.
Gli effetti tangibili (quelli positivi) non si sono mai visti e oggi, a differenza di ieri, la L. 247/12 nessuno la difende più; siamo aggrappati all’equo compenso e alla speranza, con tutti i limiti dell’attuale previsione, di una sua miglior fortuna.
Nel merito, la proposta di riforma dell’art. 111, con il riconoscimento espresso del CNF (“…organo esponenziale della categoria forense…”) in Costituzione (cosa ben diversa dall’Avvocato in Costituzione), da contrapporre al CSM, non ci convince; viceversa, la riforma del Consiglio Nazionale Forense nel rispetto del principio costituzionale (!!!) della separazione dei poteri è più che mai necessaria.
Saremmo più contenti, invece, se il diritto inviolabile alla difesa e il ruolo che l’ordinamento ci assegna a tutela invalicabile di quel diritto spingesse con maggiore forza l’Avvocatura nella difesa della giurisdizione, nell’evidenziare le criticità e le storture del DDL Pillon e del DL “sicurezza”, nel ribadire i principi irrinunciabili del processo civile alla vigilia dell’ennesima riforma, nel contrastare quella giurisprudenza che anno dopo anno, silenziosamente, erode gli istituti cardine del processo (nel civile, ad esempio, si pensi alla discrezionalità nel differimento di udienza con la chiamata del terzo; alla limitazione dell’istituto della sospensione; al venir meno della distinzione tra garanzia propria e garanzia impropria), nel rivendicare misure fiscali che incoraggino le aggregazioni professionali.
Sbaglia chi pensa che a Catania i colleghi si siano confrontati sui temi all’ordine del giorno; nessuna possibilità di dibattere. Anche il momento congressuale dell’Avvocatura necessita di essere profondamente ripensato.
In ogni caso, all’Avvocato in Costituzione preferiamo di gran lunga l’Avvocato in “evoluzione”.
L’articolo in formato pdf 2018 11 3 Guida al Diritto 45 2018