Investire nel sistema Paese. È questa l’idea che la previdenza privata sta maturando da un po’ di tempo. Un’idea che per potersi concretizzare su larga scala ha bisogno di proposte concrete e tempi certi.
È opportuno ricordare che la previdenza dei professionisti, così come oggi la conosciamo, è nata per volontà del legislatore che ha affidato alla gestione privata la previdenza obbligatoria di chi svolge una libera professione ed è iscritto a un ordine o a un albo. La norma è il Dlgs 509/1994 e da allora sono passati vent’anni. In questo tempo le 16 Casse che a quel tempo vennero privatizzate hanno sistemato i conti, garantito un equilibrio a cinquant’anni, iniziato a investire nel welfare, per sopperire a una carenza del sistema pubblico, e accumulato un patrimonio – necessario per pagare le pensioni – di oltre 60 miliardi di euro, se si contano anche le Casse “giovani” quelle cioè nate con il Dlgs 103/96.
Ora gli enti di previdenza dei professionisti sono una realtà importante, ricca, strutturata, possono garantire risorse nel tempo, e hanno la necessità di investimenti di medio-lungo periodo e nulla vieta che si tratti di investimenti strategici per il nostro paese. Potrebbero, quindi, essere una controparte importante per chi gli investimenti li decide. Il condizionale però è d’obbligo. Fino ad ora, infatti, questi enti sono stati visti e trattati come una sorta di “bancomat”. Un esempio? I rendimenti dei loro investimenti, parte integrante delle future pensioni degli iscritti, vengono tassati come accade per qualsiasi speculatore privato. L’aliquota sui rendimenti, ora al 20%, dovrebbe salire al 26%. Uno scherzo che verrebbe costare al sistema circa 100 milioni di euro. Una pressione fiscale che non ha analoghi in Europa, la pensione viene infatti tassata anche al momento dell’erogazione. Ma non è tutto, altre risorse negli ultimi anni sono state “sottratte” alla previdenza delle professioni con la spending review: i risparmi imposti sono infatti finiti nelle casse dello Stato.
Le Casse sono percepite come un soggetto “ricco”, e ci si dimentica che questa ricchezza serve a pagare le pensioni future di circa due milioni di lavoratori e per farlo deve fruttare o almeno conservarsi intatta nel tempo. Ma di quali cifre stiamo parlando? Il patrimonio delle Casse ammonta a 61,13 miliardi (fine 2012), di cui 9 miliardi investiti in titoli di Stato (di cui 7,2 miliardi titoli della Repubblica italiana). La liquidità è pari a circa il 10 per cento, quindi sei miliardi.
L’ultimo invito a investire nel sistema Paese, se escludiamo i titoli pubblici, venne fatto nel 2010 per il social housing. Le Casse hanno messo sul piatto 168 milioni di euro di cui 20 milioni li ha investiti la Cnpadc, ma l’iter per far decollare il progetto è stato lungo e solo negli ultimi sei mesi si sta realmente muovendo qualcosa.
Nell’attesa di proposte strutturate e interessanti (fa ben sperare quanto detto dal ministro Lupi nell’intervista accanto), la Cnpadc quest’anno ha deciso di lanciare un segnale in questa direzione e ha previsto di investire 140 milioni in strumenti alternativi come mini-bond, private equity e fondi che hanno come società-target medie imprese tipicamente italiane.