Nessun prodotto nel carrello.
A fine luglio, a Roma, si è tenuta, dopo quella di aprile di due anni fa, una seconda sessione ulteriore del 34° Congresso Nazionale Forense.
Sulla giustizia civile, quanto al processo di cognizione di primo grado, l’Associazione Nazionale Forense ha condiviso e sostenuto la “proposta A” di riforma contenuta nella relazione della commissione ministeriale presieduta dal Prof. Luiso:
“prevedere, nell’ambito del libro secondo del cpc, che il Giudice in prima udienza:
- a) quando ritenga che la causa possa essere immediatamente decisa, anche su una questione pregiudiziale o preliminare, diritto o di merito, inviti le parti a precisare le conclusioni ed avvii la causa in decisione;
- b) in ogni caso, ferme restando quanto al contenuto le tre memorie come previste dall’attuale articolo 183, comma 6°, ove le parti ne richiedano la concessione, possa modulare i relativi termini da un massimo di ottanta fino ad un minimo di quaranta giorni complessivi, tenuto conto delle circostanze di causa”.
Poche righe per difendere e contemporaneamente rafforzare un processo non punitivo e capace di assicurare decisioni che rispecchiano l’effettivo stato della situazione sostanziale controversa che oggi, è opinione unanime, ha raggiunto il suo perfetto equilibrio e nel quale tutti gli operatori si muovono con sicurezza.
Di diversa natura, con un intelligente utilizzo delle risorse del PNRR, dovrebbero essere gli interventi necessari: ristrutturazione e organizzazione, in termini anche manageriali e tecnologici, degli uffici giudiziari e del lavoro; riforma della magistratura onoraria; strumenti alternativi supportati da incentivi fiscali e modulati tra loro per materia e per efficacia attentamente verificata dopo dieci anni di obbligatorietà; ufficio del processo realmente utile e non precario.
Invece, il maxi emendamento governativo al ddl AS 1662 ha recepito la “proposta B” della commissione, incentrata sulle preclusioni nelle fasi introduttiva e istruttoria della causa; unanimi le proteste e le preoccupazioni dell’Avvocatura e la recente disponibilità della politica all’ascolto e al confronto potrebbe rivelarsi positiva.
Poche righe e chiari principi servirebbero, nonostante l’approvazione in prima lettura del disegno di legge AC 2435, anche per rimarcare l’idea di un giusto processo penale; bene la rivisitazione del regime sanzionatorio ma per nulla condivisibili sono le novità in tema di impugnazioni e non lo sono quelle sulla prescrizione, che mescolano elementi processuali con elementi sostanziali ponendo problemi di applicazione e interpretazione del periodo transitorio e attestando di fatto un’incapacità di regolare diversamente la ragionevole durata del processo.
E poi, l’ordinamento giudiziario: rispetto al disegno di legge dell’ex Guardasigilli Buonafede, gli elementi di trasparenza, responsabilizzazione e valutazione dei magistrati lì presenti sono stati tutti eliminati dalla commissione ministeriale presieduta da uno dei massimi sostenitori dell’avvocato in Costituzione. Sembra doversi prendere atto che i magistrati non sono valutabili.
Ed è ovvio che, se i magistrati non sono né valutabili né sanzionabili e se continuiamo ad ignorare le reali cause che frenano i tempi della giustizia, l’intervento del legislatore sulle regole del processo era e rimane la via più facile per riformare (!) la giustizia. Tutto si tiene. La partecipazione degli avvocati nell’amministrazione della giustizia è, quindi, una priorità.
A questo punto, però, un’altra riflessione è d’obbligo.
In tutte le commissioni ministeriali istituite dalla Ministra Cartabia (processo civile, penale e tributario, magistratura onoraria, crisi d’impresa, ordinamento giudiziario), la magistratura, la cui credibilità – stando ai sondaggi – è ai minimi storici, è presente, scrive, condiziona; l’Avvocatura, invece, non c’è.
Nessuno lo dice e se ne assume la responsabilità: meglio perseverare nella mancanza di autocritica che da anni è la principale causa d’inefficacia dell’azione dell’Avvocatura.
La sessione congressuale di luglio, con una discussione di poche ore su argomenti complessi e numerosi, non ha fatto registrare passi in avanti, anzi; sembra sfuggire ai più ogni evidente correlazione tra giustizia e società; tra modelli processuali e ruolo assegnato all’avvocato, da un lato, e modalità organizzative della professione, dall’altro; tra la capacità reddituale dell’avvocato e il suo sistema previdenziale.
Assetto e organizzazione della professione, infine, relegate ai margini di ogni discussione nonostante:
– le dimissioni dei vertici (del presidente, di un vice presidente e di alcuni consiglieri) del Consiglio Nazionale Forense in un contenzioso senza fine sul limite del doppio mandato per ordini circondariali e CNF;
– la soppressione dell’obbligo dei cinque affari annui perché l’esercizio della professione sia effettivo, continuativo, abituale e prevalente;
– la perdurante assenza delle linee guida ministeriali sui corsi per le specializzazioni forensi e l’ennesimo giudizio dinanzi al TAR;
– le scuole forensi non obbligatorie, non ancora in vigore, e la prossima pronuncia del giudice amministrativo sul relativo DM;
– il diffuso malcontento sull’attuale procedimento disciplinare, sul funzionamento dei consigli distrettuali di disciplina e sul sistema dei crediti formativi per l’aggiornamento professionale;
– le difficoltà (a mio avviso) oggettive nel disciplinare un equo compenso cogente per la PA;
– l’acuirsi delle contraddizioni della professione per effetto della pandemia, del reddito di ultima istanza e delle altre misure emergenziali;
– una possibile nuova riforma previdenziale e il passaggio al sistema contributivo tout court;
– il fallimento della legge ordinamentale del 2012 e dell’idea di professione e governance ad essa sottesa.
Se la risposta a tutto questo è il dibattito estivo sui decreti reclutamento nella PA, sullo sblocco dei concorsi pubblici, sulla fuga dalla professione, è facile rendersi conto che lo struzzo non ha alcuna intenzione di tirar via la testa dalla sabbia.
Fortunatamente il nuovo esame di abilitazione imposto dall’emergenza pandemica è un raggio di luce: pensare e realizzare un modello di professione diverso è possibile.
Sulla stessa scia, quindi, il futuro – l’ho già scritto su questa Rivista – richiede coraggio e visione per: armonizzare tutte le norme esistenti, a livello sostanziale e fiscale, per agevolare le aggregazioni multidisciplinari professionali, il ricorso alle società e le reti tra professionisti; disciplinare le collaborazioni e la figura dell’avvocato dipendente da altro avvocato con garanzie minime per tutti; rivedere il regime delle incompatibilità; prevedere la coesistenza di diverse “figure” di avvocato a seconda dell’ambito in cui la professione è esercitata; ripensare l’obbligatorietà dell’iscrizione a Cassa Forense e le modalità di iscrizione all’albo e agli albi; ridisegnare il codice deontologico e il modello di governance.
La settimana prossima, a Roma, l’ANF terrà il suo nono congresso nazionale: analisi e approfondimenti che dovranno costituire la proposta programmatica per il prossimo triennio. Giurisdizione, diritti, professione, welfare e rappresentatività: insieme, per essere più consapevoli di ciò in cui siamo coinvolti e per rimarcare il ruolo fondamentale delle associazioni che va ben oltre “l’illusione di un’interlocuzione a chilometro e tempo zero di tutti con tutti”.
Luigi Pansini – Segretario generale ANF