È come se stessimo uscendo da una guerra di trincea durata vent’anni. Una guerra senza fine sul fronte della giustizia che ha dato un contributo significativo a bloccare lo sviluppo civile e la crescita di un intero Paese. Una di quelle nelle quali si ha alla fine la sensazione che i due eserciti avessero l’uno bisogno degli eccessi dell’altro per motivare le truppe e sopravvivere. Da una parte alcuni magistrati arrivati a fondare partiti politici per proseguire la crociata personale con altri mezzi; dall’altro taluni avvocati diventati parlamentari per promuovere leggi finalizzate a garantire anche l’impunibilità di un proprio cliente. In mezzo il vuoto di una politica incapace di proporre una strategia equilibrata e ai margini cittadini e imprese che sprofondavano in quell’incertezza del diritto che, nelle classifiche internazionali, risulta essere il fattore che più di tutti spiega la bassa capacità dell’Italia di attrarre investimenti e produrre posti di lavoro. Eppure è proprio quella della giustizia la riforma strutturale sulla quale questo presidente del Consiglio deve fare la differenza. Del resto, la proposta politica di Matteo Renzi ha finora vinto tra la gente proprio perché dovrebbe rappresentare il superamento di quello scontro ideologico che ha impedito qualsiasi passo avanti. Quale dovrebbe essere allora un approccio alla riforma della giustizia che sia pragmatico, post ideologico, orientato ai risultati? Continua a pag. 18 segue dalla prima pagina Da dove comincerebbe un riformatore che volesse cambiare senza farsi bloccare dalle culture professionali che su questo fronte si contrappongono, provando a considerare la giustizia un servizio pubblico di cui migliorare la prestazione attraverso una sua riorganizzazione? In che misura l’atto di indirizzo politico istituzionale pubblicato dal ministro della Giustizia della settimana scorsa coglie l’opportunità? I dati del confronto internazionale sono chiarissimi: secondo il World Economic Forum e la Banca Mondiale a far scappare i pochi investitori internazionali che ancora considerano l’Italia come possibile destinazione, sono le questioni gemelle della complessità della legge fiscale, nonché dell’inadeguatezza della macchina della giustizia: sono questi due problemi ad aver quasi disintegrato – in un Paese nel quale per altri aspetti l’invadenza dello Stato è superiore a quella di un regime socialista – quella certezza del diritto che per lo stesso Adamo Smith è il bene pubblico essenziale che non può mancare neppure nel regime più liberista del mondo. Siamo al 143˚ posto su 148 Paesi del mondo per capacità del sistema di far rispettare i contratti; ma il sistema riesce non solo a scontentare chi da sinistra si lamenta a ragione della scarsa possibilità che c’è di condannare chi lo merita; ma anche a rendere legittime le proteste di chi da destra contesta il rischio che vengano rovinate persone innocenti e, del resto, sempre secondo le classifiche internazionali lo stesso giudizio sulla indipendenza della magistratura ci colloca al 78˚ posto lontani dall’Europa, ma anche dall’India dei marò. In realtà, una riforma della giustizia non si fa cambiando solo la magistratura. Ci sono, infatti, almeno tre altre leve sulle quali agire: la società civile, incoraggiandola ad essere maggiormente tale creando l’aspettativa diffusa tra chi ha torto che non convenga usare i tribunali per ritardare il momento in cui si pagano i propri conti; gli avvocati, che – certamente molto più numerosi in Italia che altrove – hanno un interesse oggettivo ad alimentare il contenzioso; la qualità e la quantità delle leggi, perché il legislatore – come rimprovera lo stesso presidente della Repubblica – dimostra di essere sempre meno in grado di scriverle in maniera comprensibile. La risposta al problema è stata, però, finora intelligente come riescono ad essere certi tagli lineari della spesa pubblica: stanno diminuendo le liti – come testimonia l’ultimo rapporto della Commissione Europea per l’efficienza della giustizia (Cepej) – ma lo si fa attraverso un aumento generalizzato delle tasse e, dunque, del costo preventivo di accesso ai tribunali: rischiamo di buttare il bambino con l’acqua sporca, creando una giustizia solo per i ricchi e restringendo la concorrenza tra gli avvocati. Viene – e questo è un bene – allargato il numero di casi – separazioni e divorzi, ad esempio – che i cittadini possono regolare senza rivolgersi al giudice. Si rafforza la responsabilità dei magistrati, ma viene limitata a casi estremamente gravi di colpa o dolo, mentre continua ad essere assente qualsiasi nozione di premi legati ai risultati che sono fisiologicamente assai diversi tra diversi tribunali (a Torino per risolvere una disputa occorrono meno di mille giorni, a Bari ne sono necessari più di duemila). Gli stessi provvedimenti con i quali si cerca di riformare, confermano la tendenza a creare ulteriori contenziosi che saranno certamente necessari per interpretare cosa il legislatore volesse dire. Nei provvedimenti annunciati dal governo c’è un importate consolidamento dell’idea che il problema della giustizia sia problema organizzativo e ciò è garanzia di un approccio alla questione più concreto; manca, però, ancora un progetto di cambiamento complessivo che faccia leva su quelli che – tra i magistrati bravi e gli avvocati più giovani – vi hanno interesse. Vanno modificati i comportamenti ma più con strumenti simili a quelli della “patente a punti” che con ulteriori processi. Utilizzando strumenti di monitoraggio che – in maniera laica, non drammatica – sanzionino con multe chi (cittadini, ma anche avvocati) prova ripetutamente a fare soldi promuovendo cause temerarie. Vanno eliminate le pastoie burocratiche che richiedono atti giudiziari, persino, per rendere esecutive le sentenze. Va completata la deregolamentazione – dopo il passo avanti da Bersani e quello indietro della legge del 2012 – di una professione forense che non può più trastullarsi nel difendere una presunta incompatibilità tra le logiche di mercato e la natura intellettuale del proprio lavoro. Vanno introdotti premi che riconoscano sistematicamente il merito di chi riesce a smaltire il contenzioso senza costi per lo Stato e neppure in termini di riduzione della qualità del servizio. Va incoraggiata una specializzazione di giudici e avvocati in maniera che siano più bravi e veloci. Impegnandosi, come governo e parlamento, a disboscare la giungla che è diventato il sistema delle fonti del diritto e approvare solo leggi che superino un test di comprensibilità da parte di un cittadino mediamente istruito o dell’amministratore delegato di un’impresa straniera. Certo da un governo pragmatico ci si aspetterebbe, poi, l’apertura su scala europea di un dibattito su questioni di profilo più alto: possiamo davvero considerare la magistratura una organizzazione – come è presupposto dallo stesso discorso che abbiamo sviluppato – in un contesto nel quale l’articolo 107 della Costituzione sembra negare questa possibilità? è ancora vero – come lo era nei giorni in cui Montesquieu immaginava le forme dello Stato – che la magistratura è un “potere”? Se essa dovesse tornare ad un ruolo di applicazione di leggi che diventano meno numerose e più chiare? E se è un potere che agisce in “nome del popolo” è giusto che i vertici del suo organo di autogoverno siano nominati, in parte, da un altro potere e non rispondano direttamente ai cittadini? Occorrerebbero visione e pragmatismo. Quello che si attende da un governo fatto di ministri cresciuti quando le guerre fredde erano già finite e le tecnologie rendevano certi riti non più sopportabili. Si potrebbe cominciare, oggi, cercando un’alleanza con chi tra gli avvocati e i magistrati accetta la sfida della modernità.
Francesco Grillo