19.12.14 Milano Finanza – Forse è arrivato il momento di indagare sugli incarichi extragiudiziari dei magistrati

L’obbligo di aggiornamento professionale e la proliferazione dei convegni in materia giuridica ha moltiplicato per i magistrati le occasioni di poter svolgere una seconda attività lavorativa, complice un compiacente regolamento varato dal Csm, l’organo di autogoverno della categoria, nel 2013. Se a comportarsi così fossero stati i politici lo scandalo sarebbe stato cosa certa, e qualche inchiesta sicuramente sarebbe già scattata da tempo, in un clima di indignazione collettiva. La partecipazione, diffusa e indiscriminata, dei giudici ai convegni e ai corsi di formazione professionale organizzati da soggetti privati, nella stessa branca del diritto in cui essi sono ogni giorno chiamati a giudicare le controversie tra cittadini, costituisce un malvezzo che in realtà è denso di pericolose conseguenze, e che per questo motiva deve essere interrotto senza alcun indugio. Una prima censura che va mossa a questo, purtroppo sino a oggi, tollerato fenomeno, riguarda il fatto che la partecipazione retribuita del giudice ai convegni e ai corsi di aggiornamento professionale avviene non di rado nei giorni in cui lo stesso dovrebbe trovarsi in tribunale a svolgere la propria attività giurisdizionale; attività per la quale, non va dimenticato, percepisce uno stipendio più alto di quello percepito da qualsiasi altro pubblico funzionario. Un giudice, quindi, che si fa pagare dallo Stato mentre lavora per un privato, che a sua volta lo retribuisce. Si tratta di un comportamento indubbiamente riprovevole, e forse non solo sotto il profilo etico se si pensa alle pesanti accuse che sono state rivolte ai politici in casi dai contorni non certo molto dissimili da quelli della patologia qui denunciata. La seconda censura, se è possibile, è ancora più grave della prima e riguarda l’incidenza che la partecipazione del giudice al dibattito dottrinario ha sul corretto funzionamento della giurisdizione. Questi, infatti, anziché limitarsi, come dovrebbe, a interpretare la norma in relazione alla singola fattispecie controversa sottoposta al suo vaglio, e all’interno delle sacre mura del tribunale, partecipando al pubblico dibattito finisce per imporre erga omnes, e non solo alle parti in causa, dunque, i suoi convincimenti, quasi sempre ispirati dalle proprie inclinazioni ideologiche, sfruttando il privilegio di chiamarsi «giudice». Solo un suicida, infatti, proporrà in giudizio una tesi interpretativa diversa da quella prospettata dal giudice che lo dovrà giudicare. In questo modo, condizionando i comportamenti degli operatori tramite la partecipazione al dibattito dottrinario, il giudice espande il proprio potere ben oltre la propria funzione giurisdizionale. Il suo pensiero, così, si tramuta, però, da «giudizio» in «pregiudizio». Non a caso tale pernicioso fenomeno si è particolarmente diffuso nell’ambito del diritto delle imprese in crisi, dove l’effetto coercitivo dell’opinione preventiva del giudice è amplificato dalla circostanza che in tale comparto del diritto la seconda chance di giudizio arriva sempre tardi, in quanto gli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento permangono sino a che il provvedimento di sua revoca non sia passato in giudicato, cosa per la quale occorrono in media sette anni. Ma l’aspetto maggiormente pericoloso è che ai margini di questi corsi e convegni (un giudice ha perfino fondato una rivista che tratta la materia su cui ogni giorno giudica) si sono creati gelatinosi e intollerabili intrecci di interessi tra taluni magistrati e taluni professionisti ossequiosi del «vangelo» dai primi predicato. È giunto, pertanto, il momento che il ministro Orlando – che ha dimostrato, al contrario di tutti i suoi predecessori, di saper affrancare le proprie iniziative dai condizionamenti di quella che è stata definita, non a torto, la «supercasta» – disponga un’approfondita inchiesta amministrativa sulla degenerazione di questo fenomeno a fondamento di imprescindibili interventi correttivi e, se del caso, punitivi delle fattispecie più gravi.

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