27.11.17 Mag by legalcommunity.it – Equo compenso? Si, ma anche no

Il tira e molla sull’introduzione di una norma che garantisca l’equo compenso ai liberi professionisti al servizio di banche, assicurazioni e pubblica amministrazione rischia di risolversi nella classica soluzione di mezzo che scontenta tutti e non risolve nulla. L’approvazione da parte della Commissione bilancio del Senato di questo testo non ha fatto in tempo a essere annunciata che subito è finita al centro di critiche e stroncature. Troppo generica. E incapace di incidere sul fenomeno della pressione tariffaria che ormai da anni spinge verso il basso i compensi degli avvocati italiani. Queste, in buona sostanza, le ragioni della bocciatura da parte dei detrattori (soprattutto su Facebook). In effetti, la modifica al testo del decreto legge fiscale approvata nella notte tra il 14 e il 15 novembre non introduce un nuovo tariffario di riferimento, ma si limita a fissare un principio di necessaria equità dei compensi rispetto alla quantità e qualità delle prestazioni fornite dai professionisti. Insomma, molto fumo e pochissimo arrosto. L’emendamento, infatti, opera un rimando ai parametri che, come noto, si utilizzano quando tra avvocato e cliente non si raggiunge un accordo sull’entità del compenso dovuto dal secondo al primo rispetto a una specifica prestazione. Quindi, l’emendamento così congegnato, pur identificando lodevolmente tutta una serie di clausole nulle laddove vengano imposte dal cliente forte al suo consulente, non consente di garantire a priori l’equo compenso del professionista ma mette a sua disposizione uno strumento per far valere (in un presumibile contenzioso) i diritti violati di quest’ultimo. Bene, anzi male. Perché la sensazione è che questo emendamento (le cui sorti sono ancora tutte da definire visto che il dl, dopo il varo del Senato, dovrà tornare alla Camera per l’approvazione definitiva) sia stato approvato con un occhio rivolto alle prossime scadenze elettorali più che agli interessi di queste categorie. In ogni caso, chi ci segue sa che il principio dell’equo compenso stabilito per legge ci ha sempre lasciati perplessi. Difendere il prezzo delle prestazioni legali, prescindendo dalla loro effettiva utilità, suona più che altro come un intervento di carattere assistenzialistico a favore di sacche professionali incapaci di adeguarsi all’evoluzione del mercato. Le norme di solito cercano di regolare il presente. Ma quando si parla di libere professioni, a cominciare da quella forense, dovrebbero farlo cercando di guardare al futuro e non limitandosi a indugiare sul passato. Il mercato ha detto addio ai minimi tariffari ormai da undici anni. Chi compra servizi legali lo fa mettendo in competizione i propri “fornitori” senza dare particolare importanza al fatto che essi siano o meno iscritti a un Ordine professionale. In più, nel giro di pochi anni, molte attività di base, finora appannaggio di professionisti in carne e ossa, diverranno pane per i denti di robot lawyer e sistemi di intelligenza artificiale. Allora ciò per cui ci si dovrebbe battere davvero è la difesa della qualità professionale, dell’avvocato come funzione capace di dare una risposta effettiva ai nuovi bisogni sociali ed economici, e non delle tariffe o dei compensi avulsi dal concetto di utilità, come dice uno degli avvocati protagonisti di questo numero di MAG . Quanto alle disfide tra norme ed emendamenti, poi, non dimentichiamo che in Italia manca di tutto, tranne le leggi. E che forse, se proprio ci fosse una seria intenzione di non lasciare libertà d’azione assoluta alla “mano invisibile”, al posto di sgomitare per aggiungere commi a leggi da fare, si potrebbe decidere di lavorare al miglioramento di norme già esistenti (come la 81/2017, il cosiddetto Jobs act degli autonomi) che già riconoscono la necessità dell’equilibrio contrattuale tra le prestazioni delle parti, così come ha suggerito il presidente dell’Anf, Luigi Pansini.

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