Il regolamento cassazionisti finisce sotto la lente della Corte costituzionale per «discriminazione al contrario». Complica, infatti, il percorso agli avvocati abilitati in Italia, che per diventare cassazionisti devono seguire corsi e superare esami. Mentre agli avvocati stranieri stabiliti, per essere ammessi al patrocinio avanti le giurisdizioni superiori, basta aver esercitato per 12 anni la professione in Italia. È quanto emerge, tra l’altro, dall’ordinanza della sezione terza del Tar Lazio (n. 2415/2016), che solleva dubbi di legittimità costituzionale riguardo l’art. 22 del nuovo ordinamento forense (legge n. 247/2012), che disciplina le modalità per diventare avvocati cassazionisti, rimandando la questione alla Consulta. Il Tar si è pronunciato sui i ricorsi proposti dalle sedi dell’Anf di Bari, Pescara, Vasto, Bergamo, da numerosi giovani associati e da giovani avvocati contro il regolamento n. 1/2015 del Cnf che disciplina i corsi per l’iscrizione all’Albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori. Il regolamento adottato dal Cnf, che sostituisce il precedente, emanato il 16 luglio 2014, prevede in sostanza, per diventare cassazionisti: il possesso di requisiti di natura soggettiva, una prova di accesso preselettiva, la frequenza di un corso di 100 ore e il superamento di una prova scritta finale. Il problema è che il dlgs 2 febbraio 2001, n. 96, che recepisce la direttiva 98/5 relativa all’esercizio stabile e continuativo della professione forense in uno stato membro diverso rispetto a quello nel quale sia stato acquisito il relativo titolo di abilitazione, prevede all’art. 9, comma 2, la possibilità, per i professionisti europei, di iscriversi all’albo speciale per il patrocinio avanti alle giurisdizioni superiori. Per farlo, però, basta dimostrare «di avere esercitato la professione di avvocato per almeno 12 anni in uno o più degli stati membri, tenuto conto anche dell’attività professionale eventualmente svolta in Italia». Una volta iscritto all’albo speciale per le giurisdizioni superiori, quindi, lo straniero che intenda patrocinare innanzi alla Cassazione e altre Supreme giurisdizioni può farlo previa intesa con un avvocato abilitato al patrocinio avanti alle stesse giurisdizioni. Il risultato paradossale, quindi, è che per gli abogados, ovvero gli italiani che scelgono la «via spagnola» per non passare dalle forche caudine dell’esame di stato italiano, la strada per diventare cassazionisti risulta più semplice rispetto a chi è si abilitato in Italia. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 22, comma secondo, della legge n. 247/2012, secondo il Tar Lazio, è rilevante e non manifestamente infondata in relazione all’art. 3, secondo comma della Costituzione. A parere dei giudici, infatti, se per alcuni professionisti l’iscrizione all’albo dopo 12 anni di professione deve essere ritenuta conforme a Costituzione, «allora non è possibile scorgere tale compatibilità nei confronti di una disciplina che comporti, per altri professionisti che operano nel medesimo campo e nel medesimo mercato dei primi, l’incertezza e il notevole aggravio legati a un esame di ammissione al corso di cui all’art. 22, alla frequenza del medesimo e infine alla positiva valutazione finale a seguito di esame». A parere di Luigi Pansini, segretario generale dell’Anf, a questo punto «sarebbe auspicabile che il ministro della giustizia, organo che vigila ai sensi di legge sulla professione, intervenga per sanare l’evidente contrasto della legge n. 247/2012 con la normativa comunitaria e affronti nel corso del nuovo anno anche il tema dei sans papier e dei giovani avvocati monocommittenti». Inoltre, secondo Pansini, qualora la Consulta dovesse dichiarare illegittimo l’art. 22 «dovrebbe essere prevista anche per gli avvocati italiani la possibilità di diventare cassazionisti dopo 12 anni di esercizio. È la norma comunitaria, infatti, che dovrebbe prevalere sulla legge professionale italiana»
Gabriele Ventura