Canzio: contro la prescrizione spazio al giudice nelle indagini preliminari

Il Sole 24 Ore – 

Rafforzare il peso del giudice nella fase delle indagini preliminari. Predeterminare la durata ragionevole di ogni grado di giudizio. Ma prima di tutto, partire dall’analisi dei dati. L’opinione di Giovanni Canzio, Primo presidente emerito della Cassazione, che ha guidato sino a pochi mesi fa, per affrontare il tema del giorno, la prescrizione, è a basso tasso di ideologia in un momento invece di forte tensione dentro e fuori dal Parlamento.

Presidente, la stragrande maggioranza delle prescrizioni matura nella fase delle indagini preliminari. Non pare che la riforma 5 Stelle, ma neppure quella Orlando già in vigore, entrambe centrate sulla pronuncia di primo grado per il blocco dei termini, possano incidere in maniera significativa.

Appunto. Il problema esiste ma, per affrontarlo, bisognerebbe partire dai dati, con una corretta analisi economica del fenomeno. Tenendo sempre presente che, negli anni, il numero delle prescrizioni è andato diminuendo: dalle oltre 200.000 di poco più di 10 anni fa, alle 145.000 attuali. E sono sempre i numeri a dire che il tema delle indagini preliminari è cruciale.

Propone allora di allungare la loro durata?

Assolutamente no. Serve piuttosto un ruolo diverso e più incisivo del giudice. Oggi il controllo sulla durata delle indagini preliminari è assolutamente blando e circoscritto. Il giudice interviene solo al momento della richiesta di proroga dei termini; non esercita, per esempio, alcuna funzione di controllo sull’iscrizione nel registro degli indagati. La stessa recente ipotesi di avocazione per inerzia del pubblico ministero non rappresenta uno strumento efficace: si tratta di un controllo gerarchico e tutto interno al sistema della pubblica accusa.

Spesso sono le procure stesse a temperare l’obbligatoretà dell’azione penale con una selezione di fatto delle notizie di reato.

Però, almeno di solito, senza trasparenza sui criteri scelti. Piuttosto che a un forma di amnistia occulta sarebbe meglio pensare allora a un chiaro e serio intervento di depenalizzazione, mirato su alcuni reati.

E su appello e Cassazione?

In Cassazione la prescrizione di fatto non esiste, viene dichiarata solo quando il procedimento arriva già prescritto; altrimenti si fissa il giudizio in tempi rapidissimi: la durata media del processo è di 7-8 mesi. In appello il discorso è diverso. Ma il punto veramente centrale è che serve un’organizzazione dei tempi del processo, con una durata ragionevole per ogni fase di giudizio. Con le dovute deroghe per i casi di maggiore complessità. È importante che i cittadini possano prevedere la durata dei procedimenti nei quali potrebbero essere coinvolti.

Ma poi servirebbero delle sanzioni per farli rispettare.

Si potrebbe pensare a tre conseguenze per l’accertata violazione dei termini, la cui scelta è riservata al legislatore. Una sanzione disciplinare a carico del magistrato che non rispetta i termini, ma si tratta di una strada che non garantisce i diritti del cittadino. Oppure una diminuzione della pena proporzionale alla concreta violazione dei termini, sulla falsariga di quanto avviene in Germania. Infine, la prescrizione vera e propria, con l’estinzione del processo.

Ma i vertici degli uffici giudiziari sarebbero in grado di affrontare una riforma così delineata? Oggi le prescrizioni hanno una distribuzione assai disomogenea: il 50% di quelle che maturano in appello sono concentrate in sole 4 Corti (Roma, Napoli, Torino e Venezia). Forse più che una riforma servirebbe una migliore distribuzione delle risorse.

Qualche considerazione. Innanzitutto è opportuno un buon funzionamento del regime delle impugnazioni e, in particolare, dei filtri di ammissibilità. Poi, sul piano organizzativo, eventuali risorse aggiuntive, scarse per definizione, andrebbero utilizzate nelle sedi in difficoltà. Con un’assunzione di responsabilità da parte di ministero e Csm. I capi degli uffici dovrebbero comunque utilizzare con la massima attenzione i mezzi a disposizione. Ad esempio, la corte d’appello di Milano ha ridotto i giudizi penali pendenti, dal 2011 al 2014, da 18.000 a 8.000. Indispensabile infine è una stretta collaborazione con l’avvocatura con la quale insieme vanno individuati i rimedi necessari per fronteggiare il problema centrale, che è la ragionevole durata.

Lei ha presieduto l’ultima commissione per la riforma del processo penale, i cui contenuti sono in larga parte confluiti nella legge Orlando in vigore da poco più di un anno. Un rimpianto per qualche proposta trascurata?

In generale, i riti alternativi andrebbero potenziati. Lo schema accusatorio che abbiamo adottato per il nostro processo penale è impegnativo. E allora, il patteggiamento, l’abbreviato, il decreto penale di condanna rappresentano in qualche modo soluzioni obbligate (e su questo punto, un nota critica sull’approvazione ieri alla Camera del disegno di legge che impedisce il ricorso all’abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo è evidente, ndr

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