Il Sole 24 Ore, di Donatella Stasio –
Depenalizzare il reato di immigrazione clandestina, perché si è rivelato «inutile, inefficace e per alcuni profili dannoso», mentre una sanzione amministrativa, fino al provvedimento di espulsione, «darebbe risultati concreti». Riformare la prescrizione, sterilizzandola, se non con il rinvioa giudizio, almeno dopo la sentenza di condanna in primo grado. Abolire le commissioni tributarie e trasferirne la competenza a sezioni specializzate di Tribunali e Corti d’appello, per evitare che la Cassazione sia l’unico giudice con cui le parti si confrontano. Prevedere per la Cassazione un «piano straordinario di riduzione dell’arretrato civile», che nel 2015 ha toccato circa 105mila cause (un record storico). Sono alcune delle richieste che il primo presidente della Cassazione Gianni Canzio ha rivoltoa Governo e Parlamento nella cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, di fronte alle più alte autorità dello Stato, tra cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un discorso che, al di là delle proposte di «riformae di autoriforma», il neopresidente (approdato da poco al Palazzaccio dalla Corte d’appello) ha letto con emozione, ha riscosso un lungo applausoe in molti punti ha trovato riscontro nelle parole del ministro della Giustizia Andrea Orlando, del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, del presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin, del Pg della Cassazione Pasquale Ciccolo. Canzio parla della «crisi» della giurisdizione, in particolare della Cassazione. Se in generale si intravedono timidi segnali di ripresa (le pendenze civili “scendono”a 4,2 milioni, e quelle penali a circa 3,5 milioni), in Cassazione c’è un peggioramento. I dati sono da capogiro: nel civile, l’arretrato di 105mila cause («Quasi mi vergogno a pronunciare questa cifra» dice Canzio) nasce dall’impossibilità di fronteggiare, malgrado «l’altissima produttività» di ciascun magistrato (215 sentenze a testa), i quasi 30mila ricorsi in entrata, di cui ben il 38,5% riguarda la materia tributaria e il 20,2% quella del lavoroe della previdenza, con ricadute sulla durata media del giudizio, schizzata a 44,4 mesi (quasi 4 anni); nel penale, neppure l’incremento della produttività dei giudici (487 provvedimenti a testa) riesce a far fronte all’ondata di nuovi ricorsi (53.539 nel 2015) sicché la pendenza è aumentata del 5,4%, anche se la durata del giudizio rimane sotto la soglia europea (7 mesi e 9 giorni). Rispetto alle supreme Corti degli altri Paesi europei, osserva Canzio, il «divario quantitativo» ha assunto «(s)proporzioni strabilianti», anzi «mostruose». Non ci si deve stupire, quindi, se la «qualità» della risposta giudiziaria «rischia di scadere», come testimoniano «il moltiplicarsi dei contrasti interni» e la «scarsa incidenza» del precedente, cioè del principio di diritto, sul flusso dei ricorsi. La «crisi» impone anzitutto al legislatore di formulare «norme chiare, precise, comprensibili, conoscibili, osservabili, precedute dall’analisi di sostenibilità qualitativa e quantitativa e di empirica verificabilità della fattispecie normata». Non è così, perché si legifera troppo spesso,e secondo logiche emergenziali, se non populiste. Due «esempi»: il reato di clandestinità, che i magistrati considerano inutile e persino dannoso nella lotta al terrorismo, che Orlando voleva depenalizzare ma che Renzi ha invece confermato nel timore della «percezione» negativa dell’opinione pubblica; la prescrizione, che l’attuale Esecutivo non riesce a riformare per i dissensi interni alla maggioranza. «La riforma non è più rinviabile», raddoppia il Pg della Cassazione. Che mette in guardia dalla sfiducia dei cittadini in una giustizia non ancora «efficiente e rapida»e chiede interventi «più radicali», oltre a una specchiata moralità dei magistrati. Lo fa anche Legnini, ricordando che le condotte «anomale ed opache» di alcuni magistrati (vedi Saguto a Palermo) hanno messo a rischio la «credibilità» delle toghe. Il vicepresidente del Csm parla di una «fase nuova» della giustizia, che deve avere come approdo «una magistratura aperta», una «giustizia efficiente nell’afferamre i diritti e garantire effettività alle libertà dei cittadini, volanoe risorsa per lo sviluppo del Paese». Orlando difende i giudici dalle critiche di supplenza nei confronti della politica e, anzi, esprime «riconoscenza» alla Cassazione per «l’azione di promozione dei diritti civili e delle libertà fondamentali». L’attività del giudice applicare la legge al caso concreto non può infatti sottrarsi al cambiamento, spiega il ministro, ricordando che «il riconoscimento di nuovi diritti è appunto questo: l’applicazione di principi fondamentali a una società che è cambiata». Senza trionfalismi, Orlando rivendica il peso dei «numeri», anche se molto resta da fare. Sottolinea che il cambiamento «non è fine a se stesso», ma «la condizione per incidere sulla contemporaneità», per cui ciascuno «deve assumersi la responsabilità di parte di questa sfida». Gli avvocati ci stanno, purché «si abbandoni l’idea dice Mascherin che le democrazie solide e avanzate si misurano solo in Pil, piuttosto che nel grado di equità sociale».