Corriere della Sera – Andrea E Pietro Ichino
Ora, immaginiamo che al ministro della Giustizia italiano, alle prese con l’amministrazione giudiziaria più lenta del mondo, un giorno venga offerto questo strumento: un’agenda elettronica intelligente e personalizzabile, che consente al giudice di fissare l’intero calendario di ciascun processo fin dall’inizio, secondo un ordine logico che tiene conto delle diverse categorie di giudizi, e gli consente di operare facilmente gli aggiustamenti necessari strada facendo.
Immaginiamo, poi, che alcuni giudici stiano sperimentando questa agenda da tre anni e ne siano entusiasti; e che anche il giudizio degli esperti del ministero sulla funzionalità dell’applicazione sia, senza riserve, positivo. Immaginiamo infine che i suoi ideatori la offrano al governo gratis, con la sola richiesta che essa sia messa a disposizione dei magistrati interessati ad avvalersene. Non sarebbe questa un’occasione imperdibile per provare ad avviare a guarigione una delle piaghe più gravi del nostro Paese?
Questo strumento che consente la fissazione e gestione del Calendario del processo esiste davvero: si chiama A-Lex. Da due anni, però, il ministero della Giustizia, pur investito della questione ai massimi livelli, sta tergiversando: manifesta apprezzamento a parole ma rinvia di mese in mese l’accettazione di quanto gli viene offerto e l’ampliamento della sperimentazione. Ne comprenderemmo le ragioni se il ministero rispondesse: «È troppo caro, non possiamo acquistarlo»; ma l’offerta è gratuita. Oppure se rispondesse: «I magistrati dispongono già di un’agenda elettronica che consente di fare il Calendario del processo»; ma i nostri giudici non ne dispongono affatto: quasi tutti usano soltanto agende cartacee, oppure ricorrono alle agende (non intelligenti) offerte da Google o da Microsoft Outlook. Cosa che rende sorprendente l’unica obiezione esplicitata dal ministero riguardo ad A-Lex, ossia il rischio di violazioni della «privacy».
Ma le agende di Google o di Microsoft Outlook che i giudici sono costretti a usare sono assai meno protette e più a rischio di intrusione di quanto sia un’applicazione come A-Lex, impostata secondo gli standard migliori per la sicurezza informatica, inserita all’interno del sistema informatico dell’amministrazione.
Temiamo che il vero motivo del rifiuto sia un altro: in seno al ministero potrebbe esserci qualche dirigente preoccupato dal confronto di quanto si è fatto e speso fin qui per l’attrezzatura informatica degli uffici giudiziari con quanto un gruppo di cittadini volenterosi sono riusciti a realizzare in collaborazione con un piccolo ma efficientissimo produttore di software, con un costo di soli 300.000 euro raccolti dalla Fondazione Giuseppe Pera grazie al contributo e al sostegno di una Fondazione bancaria lucchese, quattro grandi associazioni imprenditoriali e alcune persone che non chiedono niente in cambio.
Ma questa non è, evidentemente, una buona ragione per rifiutare di proseguire ed estendere la sperimentazione di una applicazione che potrebbe contribuire a guarire la malattia più grave della Giustizia italiana. Ministro Orlando, se ritiene di rifiutare la donazione, le chiediamo di spiegarne le ragioni all’opinione pubblica.