Con la Pec la sentenza relativa all’avvocato non passa dal Cnf

Il Sole 24 Ore – 

Dopo l’introduzione del domicilio digitale, che corrisponde all’indirizzo Pec che ogni avvocato deve indicare al Consiglio dell’Ordine, la notifica della sentenza disciplinare non può più essere fatta presso gli uffici del Consiglio nazionale forense.

La nullità, in tal caso, può essere scongiurata solo se risulta che l’indirizzo “digitale” del legale non era accessibile per cause non imputabili a lui.

Le Sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza 19526 depositata ieri, considerano tempestivo il ricorso dell’incolpato, riconoscendogli il diritto a usufruire del termine lungo previsto dal Codice di rito civile. I giudici chiariscono, infatti, che l’impugnazione delle decisioni del Consiglio nazionale forense è soggetta – secondo la legge professionale – al termine breve di 30 giorni, a partire dalla data di notificazione d’ufficio della pronuncia contestata. Il termine lungo, di sei mesi, indicato dall’articolo 327 del Codice di procedura civile, può essere utilizzato solo quando la notifica d’ufficio della decisione non è valida e «nessun interessato ha provveduto alla notificazione di sua iniziativa».

Per i giudici è questo il caso analizzato ed è ininfluente che l’incolpato non avesse eletto il suo domicilio a Roma.

Per le Sezioni unite con l’avvento del domicilio digitale (Dl 90/2014) la sentenza da impugnare non può più essere eseguita attraverso il deposito al Cnf.

Il Supremo collegio estende così al procedimento disciplinare nei confronti degli avvocati, presso il Consiglio nazionale forense, un principio di diritto già dettato per il processo civile.

Si applicano, dunque, norme e principi del codice di rito civile i quali, solo per il giudizio in Cassazione, prescrivono che, in assenza di indicazioni espresse, le notificazioni vanno fatte in cancelleria.

Nello specifico non risultava che la Pec dell’incolpato fosse inaccessibile e dunque arriva in tempo il suo ricorso anche se sfora i 30 giorni.

Ma la tempestività dell’impugnazione è la sola “vittoria” che il legale ottiene.

Alla base della censura dei probi viri, c’erano una serie di espressioni sconvenienti e offensive usate dal ricorrente in particolare contro i magistrati.

Parole “forti” presenti sia negli atti giudiziari sia nella corrispondenza, legittimante utilizzate, secondo l’incolpato, in nome dell’ordinaria contrapposizione processuale.

Per i giudici invece le parole “scelte” uscivano dai confini dell’acceso confronto giudiziario, per scadere nell’offesa gratuita. Nel mirino del consiglio di disciplina erano giustamente finite le frasi con le quali si addebitavano, sia alle controparti sia alle toghe, carenze professionali, giuridiche e conoscitive.

Accuse «del tutto esorbitanti dall’ordinaria dialettica difensiva e talvolta esageratamente minacciose nel prefigurare responsabilità anche penali».

Per la Cassazione, che non entra nel merito delle contestazioni, il Cnf ha motivato la “punizione” in modo esauriente.

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