All’indomani della tragedia del Tribunale di Milano l’avvocato Gigi Pansini, segretario del Sindacato Avvocati di Bari, ha inviato questa riflessione sullo stato della giustizia al giornale “Gazzetta del Mezzogiorno”.
Gentile Direttore,
la tragedia di Milano dimostra ancora una volta quanto ci siamo oramai assuefatti anche alla morte, imprevista e violenta. Un evento che dà il via a una sequenza rituale costante: si accendono le luci delle telecamere, si attiva il metal detector, si indossano le toghe, si pronunciano frasi ad effetto, si rivendicano meriti, si piangono solitudini, si scrivono mail e lettere ai giornali. S’ha da fare, ciascuno ha la sua parte, il tempo di una scena. Cose viste e riviste, denunce trite e ritrite, disfunzioni segnalate e gridate. Parole d’ordine: dialogo, condivisione, collaborazione, unità, sinergia. Peccato che le si ritrovino solo in occasioni del genere, che impongono – per cerimoniale – la presenza corale di tutti gli operatori di giustizia (in rigoroso ordine alfabetico: avvocati, cancellieri, magistrati). Gli eventi di ieri offrono lo spunto per parlare del cattivo funzionamento della giustizia, va bene. Parliamone.
Qual è la causa del cattivo funzionamento della giustizia? Nessuno ha interesse al funzionamento del sistema giustizia, perché affrontarne i problemi e le criticità significa impegnarsi, toccare interessi, ridisegnare ruoli, funzioni, compiti, prerogative. Mettersi in discussione per migliorare e progettare il futuro è un prezzo molto alto che nessuno è disposto a pagare. Meglio affondare, lentamente, difendendo strenuamente ciò che si ha o si pensa di avere prima che gli abissi portino il buio. Togliere il giocattolo al bambino o entrare nell’altrui orticello è impresa assai rischiosa che crea solo inimicizie e antipatie. Le parole non servono, al pari del più dignitoso dei silenzi. Il microcosmo giustizia, uno dei tanti della società civile, sta pagando il suo fallimento, in termini di cultura, impegno, condivisione di intenti e di idee. Ce lo dobbiamo dire con estrema franchezza. Le iniziative dei singoli sono lodevoli e incoraggianti ma non bastano più. Come non bastano più la resistenza, le parole di circostanze, il vigore postumo. Le convenzioni tra gli operatori dei palazzo di giustizia, il sostegno economico degli avvocati per la sistemazione di una cancelleria, i servizi fotocopie, ben vengano ma non sono e non saranno mai sufficienti. L’isola (asseritamente) felice di un foro come quello di Bari può consolare, ma niente di più.
Oggi, mi sarebbe piaciuto trovare il tribunale chiuso, senza alcuna spiegazione o preavviso, per giorni e giorni e giorni ancora, in barba a chi predica l’impossibilità di un simile gesto perché è “interruzione di servizio” o “un venir meno della tutela dei cittadini” o “svilimento della dignità della professione”. Basta chiacchiere. Bisogna sentire sulla pelle, tutti dobbiamo provare in prima persona, cosa significa rimanere senza giustizia. Come quando si rimane senza acqua e senza pane.
E invece siamo buonisti, preferiamo accontentarci e abituarci a quello che viene, rattoppando i buchi e pregando di non affondare per primi e in solitudine. Allora, preghiamo gli dei per un messaggio di azione, coraggio, entusiasmo. Ci diano un segnale. Al momento, non siamo in grado o non vogliamo fare di più. A noi piacerebbe avere un confronto senza pregiudizi e preconcetti. Con tutti. In qualunque momento. Per non affondare e riprendere senza timore la traversata. Chiudo con una comunicazione di servizio: il metal detector del Tribunale di Bari sarà prossimamente disattivato perché (si scoprirà) incide fortemente sulla bolletta elettrica del Ministero. Ergo, un po’ di pazienza, tutto torna come prima.
Avv. Luigi Pansini