La blockchain cerca il passaporto legale

Il Sole 24 Ore – 

La validità giuridica della blockchain, inizialmente prevista nello schema del Dl Semplificazioni, è stata spinta più in là. Sfilata dal decreto approvato la scorsa settimana dal Governo, se non verrà recuperata nel percorso parlamentare del provvedimento, o a sorpresa nella legge di Bilancio, potrà rientrare con il Ddl delega per ulteriori semplificazioni, riassetti normativi e codificazioni di settore.

La norma saltata conteneva la definizione delle tecnologie basate su registri condivisi (distributed ledger technology, Dlt), di cui fa parte anche la “catena dei blocchi”. E precisava che la condivisione di un documento informatico via Dlt «produce gli effetti giuridici della validazione temporale elettronica» ex articolo 41 del Regolamento Ue 910/2014: una validazione “semplice”, che rende giuridicamente certa la data e l’ora dei dati in forma elettronica (il timestamp, la marca temporale della transazione) e garantisce «l’ammissibilità come prova in procedimenti giudiziali».

Ma al di là delle definizioni e dell’accenno a uno “status”, la tecnologia della blockchain – nelle sue diverse forme (aperta o chiusa, privata o pubblica) – richiede un approfondimento sul quadro giuridico e normativo generale, che tenga conto dei vari modelli applicabili. «La norma espunta non era comunque dirompente – osserva Michele Nastri, presidente di Notartel, società informatica dei notai italiani -. Certo si trattava di un’apertura verso queste tecnologie, che però venivano inserite al livello più basso, non in quello della validazione “qualificata”». Per quest’ultima, infatti, le regole europee richiedono particolari requisiti, tra cui l’intervento di un «prestatore di servizi fiduciari qualificato», con importanti riflessi sul “peso” stesso della prova.

Gli esempi di Dlt richiamati nella relazione illustrativa allo schema di decreto spaziavano dalla gestione e archiviazione di documenti (passaporti, certificati anagrafici) o di registri (aziendali, personali, scolastici) alla riscossione delle imposte, dall’identità digitale agli smart contract. Mettendo così insieme applicazioni con diverse “valenze” e necessità probatorie: un conto è dimostrare la titolarità del diritto d’autore, un altro la cosiddetta “tokenizzazione” di un asset (come un immobile).

A fine settembre l’Italia, dove il ministero dello Sviluppo economico ha organizzato dei tavoli di lavoro sulla “catena dei blocchi”, ha aderito all’European blockchain partnership che era stata lanciata dalla Commissione Ue ad aprile. Ma nella corsa che si sta aprendo tra le proposte dei singoli Stati (si veda l’articolo in basso) nasce anche l’esigenza di una riflessione interna tout court sulle regole tecniche. E in particolare sullo smart contract, «che rimane un atto giuridico-negoziale e non può non essere normato dallo Stato», come dice il notaio Nastri: anche se «l’intervento umano può essere sostituito solo in atti serializzati e dove l’eventuale esecuzione sbagliata sia gestibile con piccoli risarcimenti».

Dare valore legale “compiuto” ai registri distribuiti sarebbe un grande passo in avanti. «Occorre però chiarire, ad esempio, chi garantisce la certezza del dato immesso, che diventa immodificabile – spiega l’avvocato Stefano Loconte, esperto della materia -. La risposta può essere l’intervento di un ente certificatore terzo e indipendente, che a sua volta si avvalga di un modello decentralizzato». Una sorta di meta-blockchain come quella che, su più livelli, sta esplorando il Notariato, che si propone anche in un ruolo di garanzia per le reti pubbliche. «Per favorire e diffondere l’adozione dei servizi di notarizzazione su blockchain permissionless, che tuttora presentano dei limiti tecnici – commenta Leonardo Maria De Rossi, research fellow di Information system alla Sda Bocconi -, è però necessario innanzitutto definire uno standard di riferimento e attribuirgli validità legale».

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