La Stampa – GIUSEPPE SALVAGGIULO Domenica scorsa quasi 500 mila italiani hanno visto in tv il film sul viaggio dei giudici della Corte costituzionale nelle carceri. «Mi hanno detto che in termini di share abbiamo addirittura fatto meglio della partita di calcio PortogalloOlanda che lo precedeva scherza il presidente Giorgio Lattanzi – Il film mi è piaciuto perché descrive bene l’incontro tra due mondi diversi, senza criminalizzazioni né buonismi. Rappresenta una realtà che può essere letta in modi diversi. Una realtà complessa e sconosciuta anche ai magistrati e agli avvocati. Ho sempre pensato che ogni giudice dovrebbe passare almeno qualche giorno in carcere per capire il vero significato della pena che infligge». Qual è la cosa che più l’ha colpita? «Due immagini mi restano impresse. Una detenuta romena che rinuncia a un permesso per incontrarmi e dirmi “Ho capito che voi siete il nostro scudo”. E i detenuti di Rebibbia che cantano l’inno di Mameli con la mano sul cuore». La Corte negli ultimi anni ha deciso questioni fondamentali in modo innovativo. Qualcuno ha parlato di protagonismo. È così? «Nessun protagonismo. La Corte è sempre stata naturalmente protagonista e con le sue pronunce ha accompagnato l’evoluzione del nostro Paese, anche anticipandola. Il suo compito è inverare la Costituzione, talvolta scoprendone significati nuovi. Nessuno di noi è alla ricerca di una ribalta mediatica». Com’è il rapporto con Governo e Parlamento? «Il rapporto della Corte è con il legislatore e talvolta è faticoso perché tra una sentenza che denuncia una criticità costituzionale e l’intervento legislativo richiesto per sanarla spesso passa troppo tempo e la ferita resta aperta. Queste criticità oggi sono più frequenti perché il ritmo intenso con cui si legifera incide negativamente sulla qualità delle leggi». Lei sarebbe favorevole a un controllo costituzionale preventivo sulle leggi? «Il sistema di accesso alla Corte costituisce un problema. A volte le questioni di costituzionalità ci arrivano dopo molti anni dall’entrata in vigore della legge e quando dichiariamo l’incostituzionalità i cittadini restano disorientati perché pensano che il ritardo dipenda dalla Corte e perché per tanto tempo la legge incostituzionale è stata applicata. Un controllo preventivo, però, è anch’esso problematico perché dare “un bollino di costituzionalità” a una legge e poi eventualmente toglierglielo può a sua volta disorientare». I moniti servono ancora? «Il monito è una forma di rispetto per il Parlamento. La Corte individua una incostituzionalità ma lascia al legislatore il compito di scegliere la soluzione, tra le tante possibili, per sanarla. In questi casi pronuncia un’inammissibilità: si parla di una illegittimità accertata ma non dichiarata. Se poi il Parlamento non agisce, la Corte non può non intervenire». Perché nel caso Cappato vi siete comportati diversamente? «Se la Corte avesse dichiarato l’inammissibilità, il processo penale sarebbe proseguito con una probabile condanna dell’imputato e forse sarebbero stati aperti altri procedimenti penali. Perciò è stata trovata una soluzione diversa». Per questo avete escogitato il rinvio di un anno? «Sì, e non è avvenuto nulla di stravolgente. I rinvii fanno naturalmente parte del processo. In questo caso il rinvio di un anno è servito per dar tempo al legislatore di intervenire, evitando che il processo penale proseguisse con l’applicazione di una norma di cui la Corte ha prospettato l’illegittimità costituzionale». E se il Parlamento non si muovesse? «Decideremo il da farsi nell’udienza già fissata». Spesso i giudici vengono accusati perché pronunciano sentenze che hanno un rilievo politico senza essere stati eletti. La critica può riguardare anche la Corte? «I Costituenti hanno ritenuto che per garantire l’imparzialità dei giudici, ordinari e costituzionali, fosse necessario sottrarli a meccanismi elettivi, che avrebbero potuto facilmente condizionarli. Il giudice deve avere la fiducia del Paese, che è cosa diversa da un consenso politico». Come si pone la Corte sulle riforme in materia di sicurezza? «Il tema della sicurezza ci pone davanti all’alternativa autorità/libertà. Ma i diritti fondamentali rimangono dei limiti insuperabili. Suggerirei, però, una riflessione più ampia: ci dicono che i reati sono in costante diminuzione e ciò nonostante ogni anno – se non addirittura più spesso – viene approvato un “pacchetto sicurezza”. Il che mi fa pensare che il problema sicurezza sia spesso enfatizzato dai media, diventando poi un tema politico. E mi fa anche pensare che gli interventi legislativi non servano, visto che si ripetono in continuazione». Che cosa intende? «È più facile fare una legge che intervenire sui problemi reali. Più utile, ma certo più difficile, sarebbe agire sulle prassi, sui mezzi delle forze di polizia, sui tempi dei processi». Su sicurezza e immigrazione deciderete a breve. Teme strumentalizzazioni delle vostre sentenze? «Sappiamo che è possibile, ma un giudice non deve preoccuparsi delle polemiche che le proprie decisioni possono suscitare». Lei si è espresso contro le riforme costituzionali. Perché? «La prima parte, quella sui diritti, non può vivere in sicurezza senza le garanzie della seconda parte, quella sull’ordinamento della Repubblica. Intervenire su questa può mettere in pericolo anche i diritti. La Costituzione è come un orologio delicato: operare su una parte del meccanismo rischia di non farlo funzionare più. Peraltro, le continue proposte di modifiche radicali svalutano di per sé la Costituzione e fanno perdere la fiducia dei cittadini. Fortunatamente, nei referendum del 2006 e del 2016, gli italiani hanno dimostrato di essere più saggi dei loro rappresentanti». Da magistrato, come vive la crisi della magistratura? «Con dolore. Sono emerse cose che erano immaginabili, anche se non conosciute, e altre che sono oltre l’immaginabile. Ma ciò non consente di descrivere tutta la magistratura come prigioniera di collusioni e ambizioni di potere».