Il Sole 24 Ore – Giorgio Pogliotti Claudio Tucci –
Il ministro – come anticipato in un’intervista a questo giornale (si veda «Il Sole 24 ore» del 18 agosto) – intende rafforzare il ruolo della contrattazione collettiva, ed «intervenire soprattutto sul tema del diritto alla disconnessione per assicurare un equo bilanciamento tra il bisogno di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, con particolare riferimento alle donne lavoratrici sulle quali gravano i carichi familiari e di cura e le esigenze produttive delle imprese». Nei primi tavoli tecnici, in vista del confronto con le parti sociali, è emersa l’idea di rimettere in discussione il meccanismo esclusivo dell’accordo individuale scritto tra l’azienda e il singolo lavoratore, aprendo alla contrattazione collettiva, con un ruolo più marcato, quindi, che potrebbe essere affidato proprio ai contratti nazionali o aziendali che potranno normare temi, oltre alla disconnessione e alla conciliazione, anche, ad esempio, riguardanti l’erogazione dei buoni pasto.
Le ipotesi
Tra le ipotesi allo studio c’è anche quella di fissare a livello di contratto nazionale quote percentuali di ricorso allo smart working, in linea con quanto fatto, con apposite direttive, dal ministro della Pa, Fabiana Dadone, indicando come obiettivo di avere il 50% del personale coinvolto nel lavoro da remoto (previa elaborazione da parte di ogni amministrazione del Piano organizzativo del lavoro agile, i cosiddetti Pola).
Lavoro giudicato sugli obiettivi
Adesso, si tratta di capire se verrà modificata l’impostazione della legge 81 che si limita a fissare alcuni principi fondamentali del lavoro agile, considerato come una modalità di esecuzione del lavoro subordinato, caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e svolta in alternanza in azienda e da remoto – dunque non necessariamente da casa come nel precedente telelavoro -, con l’ausilio di device messi a disposizione dal datore di lavoro, la garanzia del trattamento economico e normativo pari a quella dei lavoratori che svolgono la stessa mansione in azienda, il diritto alla disconnessione. Lo strumento, infatti, implica una flessibilità organizzativa, e un lavoro giudicato sul raggiungimento di obiettivi e non sul presenzialismo in azienda.
Prima e dopo il lockdown
Prima dell’esplosione della pandemia il ricorso allo smart working in Italia, a differenza degli altri paesi, riguardava una quota marginale del lavoro dipendente, 570mila lavoratori, in prevalenza del settore privato. Poi, con l’emergenza Covid e gli spazi aziendali non in grado di ospitare i dipendenti nel rispetto delle norme sul distanziamento la scelta del lavoro da remoto è diventato, nel privato come nel pubblico, una necessità per non bloccare la produzione o l’erogazione di servizi (non fermata dai provvedimenti governativi). Si calcola che gli smart workers potenziali siano oscillati tra i 6 e gli 8 milioni di lavoratori durante il lockdown. Solo il ministero del Lavoro, per il privato, ha contato 1,8 milioni di lavoratori agili, sulla base delle comunicazioni ricevute. C’è poi stata larga parte della Pa e, forme improprie, ma sempre “da remoto”, come autonomi e professionisti.
Gli accordi nelle grandi imprese
«In previsione della scadenza del 15 ottobre molte aziende, soprattutto quelle più strutturate, si stanno organizzando per avere una platea più ampia di smart workers rispetto al passato – spiega Maurizio Del Conte, ordinario di diritto del lavoro all’Università Bocconi di Milano e autore della legge 81 -. Gli spazi aziendali, infatti, spesso non sono in grado di assicurare il rispetto del distanziamento necessario per evitare il rischio di contagi. Si fanno analisi di dettaglio per capire in base a indicatori organizzativi e di personale quali attività sono utilizzabili da remoto». Si lavora sulla trasformazione degli uffici in vista di rientri, molto spesso su base volontaria, sapendo che una buona fetta dei dipendenti resterà comunque a lavorare da remoto, magari a rotazione. Senza attendere l’intervento normativo, le grandi aziende si sono già dotate di accordi collettivi raggiunti con i sindacati, per disciplinare il ricorso allo smart working.
La Pa
Fin qui il privato. Nella Pa in base all’ultimo monitoraggio della funzione pubblica al 21 aprile nelle regioni il 73,8% dei dipendenti risultavano in smart working. Il ministro Fabiana Dadone ha fissato l’obiettivo quest’anno del 50% dei dipendenti del pubblico impiego che svolgono attività eseguibili anche a distanza e online (si punta al 60%, quando entro il 31 gennaio 2021 ogni amministrazione pubblica – sentiti i sindacati – dovrà elaborare il cosiddetto Pola, il Piano organizzativo del lavoro agile). Il ministro Dadone è convinto che l’ampio ricorso al lavoro agile abbia ricadute positive in termini di efficienza, anche se in questi mesi il ricorso allo smart working ha provocato molti disagi nei tribunali, negli sportelli amministrativi, nell’edilizia: avvocati, geometri, architetti, ingegneri, cittadini hanno denunciato disservizi e ritardi.
I rischi di un nuovo intervento
Per Arturo Maresca, ordinario di diritto del Lavoro all’università la Sapienza di Roma, la cifra dell’attuale normativa sul lavoro agile è «la reversibilità dell’accordo individuale che rispecchia appieno l’autonomia delle parti nel disciplinare questa peculiare modalità di lavoro subordinato. Un eventuale filtro collettivo, a prescindere se sarà o meno condizione per attivare l’accordo individuale, rischia di ingessare lo strumento, arrivando, a mio avviso, a snaturare l’intero istituto dello smart working». Il lavoro agile, aggiunge Maresca, «è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro, ma questo accordo è sempre reversibile, nel senso che ciascuna parte può ripristinare la normale modalità di svolgimento del rapporto di lavoro, se quella agile non viene ritenuta più soddisfacente; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività. Tutti connotati del lavoro agile che difficilmente verrebbero valorizzati in una cornice normativa che puntasse a dettagliare gli interessi collettivi».