La Stampa, di Marco Grasso –
Giudici, un po’ di stile. Dimenticate figure retoriche, voli pindarici, citazioni in latino. Soprattutto: siate brevi ed essenziali, più anglosassoni e meno umanisti. Perché la forma è sostanza, e un provvedimento più sobrio può diventare un processo meno lungo. A cominciare questa rivoluzione copernicana, qualche tempo fa, era stato il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio, autore di una sorta di vademecum su come si motiva una sentenza. Un (mini) capitolo del documento si soffermava sulla «contrazione della forma discorsiva tradizionale», elemento che diventerà vero e proprio criterio di valutazione e influirà sulla carriera di un magistrato. Ora c’è un passaggio in più: la bozza di un gruppo di lavoro voluto dal ministro della Giustizia Andrea Orlando sulla sinteticità degli atti. Avvocati, che si impegnano ad arginare arringhe logorroiche e ricorsi fiume, e pm. Insieme, allo stesso tavolo. E questa, forse, è la seconda rivoluzione. A scremarlo dai passaggi (inevitabilmente ancora un po’) burocratici, il risultato finale della commissione presieduta dal capo del Dipartimento per gli affari di giustizia Antonio Mura, assomiglia a una seduta di autoanalisi collettiva. Nel Paese dove la classe dirigente è tradizionalmente espressione della cultura umanista, anche un consesso di esperti del diritto conviene che è arrivata l’ora di cambiare. Basta pm che depositano faldoni con migliaia di atti. Basta, dall’altro lato, a ricorsi e lungaggini legali che diventano vere e proprie pratiche dilatorie. Per vedere se il tentativo riuscirà, basta aspettare.