Corriere della Sera – Giovanni Bianconi –
La «terza via» di Marta Cartabia tra i difensori a oltranza di un processo senza limiti di tempo dopo la prima sentenza (la cosiddetta riforma Bonafede) e chi quella riforma voleva «mandare in soffitta» senza pensarci più, prende forma con le parole della ministra davanti al premier e ai colleghi: «Un processo senza fine si traduce in un doppio danno che colpisce tanto gli imputati, che vedono violato sulla loro pelle il diritto costituzionale alla ragionevole durata del giudizio, quanto le vittime dei reati, sospese nell’attesa di una parola di giustizia che non arriva».
Con questa premessa la ministra spiega che la sua proposta ribalta la prospettiva su cui si sono finora azzuffate le due fazioni ora riunite nella stessa maggioranza: il problema da risolvere non è la prescrizione, bensì la durata del processo. È lì che va trovato il rimedio, e la Guardasigilli l’ha individuato nella improcedibilità: tempi prefissati per il giudizio in secondo grado e in Cassazione.
Cartabia sa bene che per i grillini la morte dei processi per superamento dei tempi-limite significa far rientrare dalla finestra ciò che loro hanno fatto uscire dalla porta. Ma anche su questo, con i suoi toni sempre concilianti, l’ex presidente della Corte costituzionale divenuta Guardasigilli, dissente: la cessazione della prescrizione voluta dai Cinque Stelle aveva le sue motivazioni, e viene persino rafforzata rispetto alle modifiche che gli stessi grillini erano pronti ad accettare introducendo la distinzione tra assolti e condannati. Con la riforma Cartabia resta ferma per tutti, solo che poi comincia l’altra partita per evitare l’improcedibilità. Inserita per rimediare ai possibili guasti che lo stop alla prescrizione porta con sé.
Sembra un gioco di prestigio, ma in realtà è una «mano tesa» al Movimento e al suo ex ministro, Alfonso Bonafede, convitato di pietra in un consesso di cui non fa più parte. Anche la mossa di inserire la corruzione e altri reati contro la pubblica amministrazione tra quelli per cui i termini del processo d’appello possono essere prorogati fino a tre anni (e a uno e mezzo in Cassazione) è un modo per andare incontro alle esigenze pentastellate. Così come la sospensione dei termini per l’improcedibilità, che ricalca quelli per interrompere il decorso della prescrizione; o come gli effetti civili di una condanna in primo grado che restano impregiudicati se nei gradi successivi venisse dichiarata l’improcedibilità. Non a caso Forza Italia e renziani si sono subito irrigiditi. Ma Cartabia reagisce chiedendo uno sforzo collettivo: «Dobbiamo arrivare all’immagine di un processo in cui tutti si riconoscono, dall’iscrizione sul registro degli indagati alla sentenza definitiva».
Le risorse europee del Piano di ripresa e resilienza, condizionate alla riforma, serviranno a finanziarie gli investimenti per garantire che tutti i procedimenti si concludano con una «parola di giustizia», senza tagliole. A cominciare dalle 16.500 nuove assunzioni per mettere in piedi gli «uffici del processo», che dovrebbero accelerare i tempi. Del resto, già ora in Cassazione i tempi medi del giudizio sono inferiori a un anno (166 giorni), mentre in 19 distretti di Corte d’appello su 29 si resta al di sotto della soglia dei due anni (a Milano la media è 335 giorni). In altri tre il tetto dei due anni viene sforato di poco, ma ci sono grandi città come Napoli, Roma, Catania o Reggio Calabria dove i tempi sono ben al di sopra del tetto, anche dei tre anni. È lì che bisogna lavorare, ed è lì che si concentrerà l’impegno per ridurre la durata dei processi.
Ma non di sola prescrizione e improcedibilità è fatta la riforma targata Cartabia. Un’altra importante novità è la possibilità di chiedere e ordinare il rinvio a giudizio solo se l’accusa ha raccolto elementi che facciano propendere per una «ragionevole probabilità di condanna». E poi ci sono le nuove norme sulla giustizia riparativa che stanno particolarmente a cuore alla ministra, attraverso percorsi volontari di riconciliazione tra vittime e rei; e l’allarganento della possibilità della messa alla prova per imputati e condannati che si prestino a progetti «di riparazione».