Pansini (ANF): «Basta piangersi addosso»
Arrivano le specializzazioni. Il Consiglio di Stato ribadisce la funzione di servizio della professione. Il Segretario Generale dell’Associazione Nazionale Forense discute con MAG l’attuale scenario: «La professione non si esercita più come trent’anni fa».
“È una questione di cultura: non serve una norma di legge per affermare che la specializzazione è un elemento di crescita, ma servono capacità di lettura della realtà, consapevolezza, programmazione, visione, coraggio”.
“Serve una netta separazione nelle funzioni degli ordini tra quelle esercitate in nome e per conto dello Stato a tutela dell’integrità della professione e quelle che dovrebbero perseguire l’obiettivo di favorirne l’evoluzione e la crescita”.
“Tutto ciò che è routinario nella professione richiederà meno tempo, meno risorse umane e professionali. L’organizzazione del lavoro sicuramente trarrà giovamento dall’innovazione”.
Specializzazioni sotto la lente. Si fanno insistenti le voci che vedono in dirittura d’arrivo il regolamento attuativo della norma della nuova legge professionale forense che introduce le specializzazioni nell’ordinamento. Come noto, si tratta di un secondo tentativo. Il TAR Lazio, con una sentenza del 2016, confermata dal Consiglio di Stato a novembre del 2017, ha annullato il decreto del Ministro della Giustizia n. 144 del 2015, limitatamente alle materie oggetto di specializzazione e al colloquio presso il Consiglio Nazionale Forense per l’acquisizione del titolo. Poi, a maggio dell’anno scorso, è stata proposta la nuova bozza di regolamento che è stata sottoposta al vaglio del Consiglio di Stato. Nel mezzo, il periodo di fine legislatura, le elezioni politiche del 2018, l’insediamento di nuovi governi e un nuovo Ministro della Giustizia non hanno, fino a questo momento reso facile il cammino della norma. La cui importanza, tuttavia, è stata ribadita proprio dal Consiglio di Stato lo scorso mese di maggio, con un parere (1347/19) in cui ha ribadito che “l’obiettivo perseguito dalla disciplina in oggetto è quello di definire aree di specializzazione nell’offerta dei servizi legali nella sua più recente evoluzione. La definizione della specializzazione è dunque funzionale ad una migliore qualità del servizio legale offerto alla clientela consentendo di segmentare il mercato e di ridurre i costi di ricerca per i clienti. Certamente questo obiettivo deve prevalere su quello della coerenza con le ripartizioni dogmatiche recepite negli ordinamenti universitari che seguono logiche ed obiettivi diversi”. Inoltre, il Consiglio di Stato ha sottolineato che “…le aree di specializzazione definite dal decreto non dovrebbero solo riflettere l’assetto attuale ma, per quanto possibile, anticiparne l’evoluzione facendo in modo che vi sia un’offerta adeguata quando la domanda di servizi legali evolverà con il maturare di nuove esigenze”.
MAG ha incontrato Luigi Pansini, Segretario Generale dell’Associazione Nazionale Forense (ANF) per affrontare la questione.
Il tortuoso cammino della regolamentazione delle specializzazioni potrebbe presto concludersi. Quali sono le ragioni che hanno suscitato questa resistenza nei suoi confronti?
Non credo vi sia resistenza, anche perché, ai sensi della legge professionale del 2012 e del decreto di attuazione, la specializzazione è una facoltà e non un obbligo. Invece, penso che tutti i colleghi, prescindendo da una regolamentazione, siano convinti della necessità che la specializzazione rappresenta un valore aggiunto che va di pari passo con la crescita professionale. C’è consapevolezza di questo e molti sono i colleghi che optano per un settore nel quale specializzarsi.
Fatto sta che a sette anni dalla legge siamo ancora in attesa…
È una questione di cultura: non serve una norma di legge per affermare che la specializzazione è un elemento di crescita, ma servono capacità di lettura della realtà, consapevolezza, programmazione, visione, coraggio. Chi vuole rimanere tuttologo, per carità, è libero di farlo, sopportandone, però, anche i rischi. Nessuno può e deve biasimare le scelte altrui; l’importante è non cadere nel populismo, nell’assistenzialismo o, peggio ancora, nel parassitismo forense.
Il Consiglio di Stato ha descritto in maniera nuova la professione: attività di servizio calata in un mercato. È d’accordo?
Il Consiglio di Stato ha ribadito quello che tutti sanno e ha rimarcato che la professione e la specializzazione rispondono a criteri e logiche di approccio diverse da quelle che caratterizzano la fase di studio all’università. Ha detto cose ovvie e, infatti, nessuno si è lamentato.
La categoria però ancora fatica a riconoscersi in questa rappresentazione…
È un falso problema. La realtà è quella che è e da essa non si sfugge, che la si chiami “mercato”, “professione”, “funzione sociale” o altro. Il fatto che una persona o un cittadino si presenti in studio e ti chieda un preventivo perché vuole, giustamente, valutare a quale professionista rivolgersi la dice lunga e non deve creare illusioni sul contesto nel quale noi avvocati operiamo. Al tempo stesso, l’idea di “un servizio legale calato in un mercato” è una foglia di fico per chi, battendosi contro una logica mercatista che tutto pervade e permea, mira solo ad assicurare la propria sopravvivenza.
A chi pensa?
Mi riferisco agli ordini, al loro ruolo, e alla loro incapacità di anticipare la lettura della crisi della società italiana, della crisi economica e della crisi dell’avvocatura nell’ambito della società e del dato economico di ogni comunità. Chi ha fallito ieri, oggi si propone come il salvatore della patria e non va bene. L’ho già detto in altre occasioni, il sistema di auto-regolamentazione e di auto-governo dell’avvocatura va completamento rivisto.
Come?
Con una netta separazione nelle funzioni degli ordini tra quelle esercitate in nome e per conto dello Stato a tutela dell’integrità della professione e quelle che dovrebbero perseguire l’obiettivo di favorirne l’evoluzione e la crescita; la legge professionale del 2012 è la consacrazione – in disposizione di legge – del fallimento di un’idea di professione. Le associazioni, su questo fronte, dovrebbero essere più coraggiose, disinteressandosi da quello che possono ricavare da un atteggiamento appiattito sulle istituzioni. Le istituzioni controllano che la professione sia esercitata secondo le regole, le associazioni puntano invece alla crescita della professione e degli associati.
Quanto è necessaria una presa di coscienza rispetto alla stagione di cambiamento che sta attraversando?
Mi provoca una strana sensazione il sentir parlare della “toga che scorre nelle vene”, che siamo “avvocati dentro e fuori”. Il senso di superiorità rispetto a tutto e tutti solo perché l’art. 24 della Costituzione garantisce il diritto di difesa non aiuta; un imprenditore o un semplice commerciante può fallire se va male, all’avvocato non può andare male perché tutela i diritti. Tutti questi discorsi mi sembrano assurdi.
Eppure, è un tema che scalda gli animi…
Quella dell’avvocato è una professione che tocca rapporti fondamentali della persona, ma non per questo l’avvocato è intoccabile o estraneo alle vicende terrene. Il fatto di aver superato l’esame di abilitazione non attribuisce diritti, ma deve spingere a dare il meglio e ancora di più.
Lo spirito corporativo è un dato che resta…
La professione è corporativa per definizione, con rendite di posizione consolidate per effetto di un’idea di professione di trent’anni fa che oggi non esiste più ma che non ha dato parità di condizioni e di opportunità a tutti i colleghi. Ecco perché la nostra associazione è molta attenta e favorevole ad una maggiore concorrenza nella professione con un ruolo meno invasivo degli ordini nell’esercizio della stessa.
Più concorrenza, dunque, è un bene?
Credo sia venuto il momento di dirci se vogliamo ancora una professione libera, indipendente e artefice del suo destino e della sua crescita anche reddituale, oppure se la vogliamo pubblica con l’intervento dello Stato che la sostiene oppure, ancora, se vogliamo accollarci il ruolo sussidiario che lo Stato, incapace di assicurare ancora molti dei servizi essenziali, vuole affibbiarci senza dire però qual è il beneficio economico che ne deriva a noi avvocati. Il limbo e l’ambiguità non giovano all’avvocatura.
Lei spesso richiama innovazione e tecnologia: che ruolo sono destinate ad avere, secondo lei, nel prossimo futuro della professione?
Tutto ciò che è routinario nella professione richiederà meno tempo, meno risorse umane e professionali. L’organizzazione del lavoro sicuramente ne trarrà giovamento. Sul piano della giurisdizione, l’innovazione, per affermarsi, ha bisogno di tempo. Innovazione e tecnologia significano innanzitutto semplificazione ma qui in Italia ogni processo ha regole telematiche sue proprie. Invece di semplificare, il telematico è diverso a seconda che si tratti di processo civile, amministrativo, tributario, penale; siamo alla contraddizione in termini.
L’ultima presentazione del rapporto Censis sullo stato dell’avvocatura in Italia ha dipinto uno scenario di ripresa. O almeno così è stato raccontato. Condivide questa narrazione?
L’aspetto che più ha impressionato è il calo delle immatricolazioni alla facoltà di giurisprudenza. Per il resto, a parte il leggero e continuo miglioramento dato reddituale, l’Avvocatura mi sembra ancora un po’ troppo timorosa.
Come stanno gli avvocati italiani e di cosa hanno bisogno?
Gli avvocati hanno bisogno di strumenti nuovi, di maggiore specializzazione, di una politica fiscale che incoraggi tutto il comparto delle professioni, di acquisire consapevolezza che la professione si esercita in forme diverse rispetto a trent’anni fa.
Di cosa, invece, non hanno bisogno?
Di piangersi addosso. E non devono assolutamente pensare che l’equo compenso sia l’unico strumento che possa risollevare le loro sorti. Non è vero che siamo in balia dei venti, ci piace autocommiserarci. Chi oggi è avvocato lo è perché sa e ha sempre saputo che la professione è libera, soggetta a rischi e senza una retribuzione fissa mensile.
Nicola Di Molfetta
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