23.02.21 Audizione A.N.F. in Commissione Giustizia del Senato sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza del 15.1.2021

Roma, 23 febbraio 2021

Spett.le

Commissione Giustizia

Senato della Repubblica

Via degli Staderari n. 4

00100 Roma (RM)

 

 

Oggetto:       audizione A.N.F. in Commissione Giustizia del Senato del 23 febbraio 2021

                        Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza del 15.1.2021

 

 

Illustrissimi Onorevoli Senatori,

componenti della Commissione Giustizia del Senato della Repubblica,

 

preliminarmente l’Associazione Nazionale Forense ringrazia per l’audizione in oggetto e si dichiara sin da ora disponibile a rendere eventuali chiarimenti, ove richiesti.

Il presente documento si sofferma ad ampio raggio sul comparto giustizia e sul comparto professione/professioni, guardando al contenuto del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza in commento, al suo contenuto e a possibili ed auspicabili implementazioni delle proposte oggi note.

 

 

  1. IL COMPARTO DELLE LIBERE PROFESSIONI

 

  • Considerazioni generali e digitalizzazione.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza del 15.1.2021 si caratterizza negativamente per l’assenza di una strategia di sviluppo delle libere professioni, in generale, e della professione di avvocato, in particolare. Mancano, infatti, iniziative e misure di sostegno allo sviluppo della dimensione imprenditoriale degli studi professionali, dei processi di aggregazione e dell’arricchimento delle competenze dei professionisti.

Oggi, riteniamo che il Piano debba essere rivisto anche alla luce del discorso programmatico del Presidente del Consiglio del 18.2.2021 che ha giustamente e sottolineato come la crisi pandemica abbia colpito duramente anche i lavoratori autonomi, sotto il profilo dell’occupazione, del sistema di sicurezza sociale, della strategia e delle misure di sostegno.

Inoltre, poiché il Next Generation EU prevede riforme, riteniamo che queste debbano riguardare anche il tema della “concorrenza e il mercato” con un preciso riferimento al ruolo e alle potenzialità delle libere professioni, in generale, e della professione di avvocato, in particolare.

Fatta questa premessa, il PNNR, con 18 miliardi di euro, conferma gli strumenti di incentivazione alla digitalizzazione previsti dal piano Transizione 4.0.

Tuttavia, la massima parte degli strumenti previsti all’interno del piano Transizione 4.0, non è accessibile ai professionisti, salvo che per quelli che operano all’interno di Società tra Professionisti, giacché la normativa di attuazione ha imposto – in modo del tutto arbitrario e incongruente con le norme di legge, che fanno   invece riferimento alla nozione comprensiva di PMI derivante dal diritto europeo – il requisito dell’iscrizione alla Camera di commercio. Si tratta di un vizio radicato che si riscontra ormai da decenni nella normativa di attuazione e nelle circolari interpretative del MISE e che dovrebbe essere stigmatizzato perché implica un aggiramento della volontà del legislatore da parte delle amministrazioni vincolate alla legge.

L’esclusione dei liberi professionisti dagli incentivi allo sviluppo digitale degli studi professionali è irragionevole rispetto alla crisi patita dai liberi professionisti.

Pertanto, sono del tutto coerenti con gli obiettivi del PNRR la previsione e il finanziamento di un piano di digitalizzazione della professione, per evitare ritardi e diseguaglianze nelle competenze digitali, destinate a riverberarsi sulle persone, i cittadini e le imprese.

 

 

  • CONTRATTI DI RETI TRA PROPOFESSIONISTI E TRA AVVOCATI.

Nell’ultimo decennio, il legislatore, in più occasioni, è intervenuto per introdurre nell’ordinamento diversi strumenti volti a favorire le aggregazioni professionali, anche di carattere multidisciplinare, nel tentativo di consentire ai liberi professionisti di adottare forme di organizzazione più strutturate che potessero favorire la crescita dimensionale dei loro studi e soddisfare le sempre maggiori esigenze di una domanda dei servizi professionali orientati alla specializzazione, alla velocità di offerta e al contenimento dei costi.

I liberi professionisti, oggi, hanno la possibilità di svolgere la professione in forma individuale, aggregata in associazioni professionali, in società STP, e STA per quanto riguarda gli avvocati, anche se l’utilizzo di questi strumenti risulta penalizzato dalla mancata armonizzazione della normativa fiscale e previdenziale, che determina, in diverse ipotesi, il duplicarsi di costi.

L’art. 12, comma 2, L. 22.5.2017, n. 81, ha introdotto la possibilità per i lavoratori autonomi, tra cui i Liberi Professionisti, di partecipare ai bandi e concorrere all’assegnazione di incarichi e appalti privati, a prescindere dalla forma giuridica rivestita, con la possibilità di costituire reti di esercenti la professione, in forma di reti “pure” e “miste”.

Tuttavia, il DL 10.2.2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla L. 9.4.2009, n. 33, che disciplina il contratto di rete, prevede, quale forma di pubblicità costitutiva (da cui discende la relativa soggettività giuridica), l’iscrizione del contratto di rete a margine di ciascuna posizione del registro imprese di ogni imprenditore, con la conseguente impossibilità di costituzione di reti “pure”, cioè costituite solo da professionisti che, non essendo iscritti al registro delle imprese, non possono godere della forma di pubblicità invece prevista per le reti “miste” (professionista + impresa).

Infatti, secondo l’orientamento espresso anche da una recente circolare del MISE, la n. 3707/c del 28.07.2018, appare possibile – a fini pubblicitari – la sola creazione di contratti di rete misti (impresa + professionisti), dotati di soggettività giuridica.

L’Associazione ritiene necessaria una spinta, nell’ambito del Piano di Ripresa e Resilienza, che agevoli, in sede di riforme strutturali, la piena applicazione del “Jobs Act Autonomi” con la possibilità per i lavoratori autonomi di accedere ad uno strumento tecnico-formale – quello del contratto di rete – più agile e più dinamico nei contenuti rispetto alle forme di aggregazione già esistenti, che consente di superare anche le problematiche di carattere fiscale e previdenziale.

In questo modo sarebbe favorite anche le aggregazioni multidisciplinari, dando loro una spinta propulsiva a livello economico ed organizzativo e superando gli ostacoli legati ai maggiori costi fiscali e previdenziali.

La proposta ANF

Prevedere espressamente nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza un intervento di riforma dell’assetto organizzativo e strutturale delle libere professioni; inserire, quindi, nel corpo della L. 81/2017, un’espressa disposizione volta a disciplinare l’effetto costituivo del contratto di rete “pura” tra soli professionisti, dal quale far discendere la soggettività giuridica oggi prevista esclusivamente per i contratti di rete “misti” (professionista + impresa); inserire, dopo l’art. 4-bis della legge 31.12.2012, n. 247, con riferimento alla professione di avvocato, un articolo che riconosca loro la possibilità di costituire contratti di rete “puri” e “misti”.

 

 

  • LE AGGREGAZIONI PROFESSIONALI E LE SOCIETÀ DI CAPITALI TRA AVVOCATI.

Le aggregazioni professionali rappresentano uno strumento necessario per lo sviluppo e la crescita delle libere professioni.

In generale, siamo d’accordo con chi ritiene che, per promuovere l’occupazione nel settore delle professioni e l’autoimprenditorialità, in particolare al Sud, sia utile destinare una quota di risorse del PNRR alla incentivazione di “società tra professionisti” costituite da professionisti under 40. L’incentivo potrebbe riguardare l’esenzione dall’Irap e una decontribuzione per l’assunzione del personale dipendente delle Stp, per i primi cinque anni di attività. L’intervento – con costi molto limitati – avrebbe un effetto particolarmente   significativo per trainare quei processi di aggregazione professionale che riteniamo imprescindibili per la competitività del settore e limiterebbe la fuga dei giovani, specie laureati, soprattutto dalle Regioni del Sud.

Inoltre, quanto alle società di capitali, l’ANF è sempre stata favorevole alla loro introduzione: rappresentano, anche per l’avvocatura, uno strumento a disposizione per una migliore organizzazione del lavoro e della professione e i professionisti e, in particolare, gli avvocati possono scegliere liberamente se giovarsene o meno.

Lo stato dell’arte:

  • la legge 12.11.2011, n. 183, consente la costituzione di società per l’esercizio di attività professionali regolamentate nel sistema ordinistico secondo i modelli societari regolati dai titoli V e VI del libro V del codice civile;
  • non è stata esercitata, da parte del Governo, la delega contenuta nell’articolo 5 della legge professionale forense del 31.12.2012, n. 247, avente ad oggetto la disciplina dell’esercizio della professione forense in forma societaria;
  • la legge 14.1.2013, n. 4, recante disposizioni in materia di professioni non organizzate in ordini e collegi, prevede che la professione possa essere esercitata in forma individuale, associata, societaria, cooperativa o nella forma del lavoro dipendente;
  • con il DPR dell’8.2.2013, n. 34, è stato adottato il regolamento in materia di società per l’esercizio di attività professionali regolamentate nel sistema ordinistico, previsto dall’art. 10, comma 10, della legge 12.11.2011, n. 183;
  • la legge 4.8.2017, n. 124, introducendo l’articolo 4-bis della L. 31.12.2012, n. 247, ha disciplinato l’esercizio della professione in forma societaria tramite la possibilità per gli avvocati di costituire società di persone, società di capitali e società cooperative alle quali possono partecipare anche professionisti iscritti in altri albi professionali e soci non professionisti;
  • la legge 27.12.2017, n. 205, ha aggiunto all’art. 4-bis della legge 31.12.2012, n. 247, i commi 6-bis e 6-ter aventi ad oggetto l’obbligo dell’indicazione “società tra avvocati” nella denominazione sociale e dell’applicazione sul volume d’affari prodotto nell’anno la maggiorazione del 4% quale contributo integrativo riversare annualmente a Cassa Forense, demandando a quest’ultima l’adozione di un regolamento che disciplini termini e modalità dichiarative e di riscossione;
  • l’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione del 7.5.2018 n. 35/E, ha evidenziato che le società tra avvocati ex art. 4-bis della L. 31.12.2012, n. 247, non costituiscono un genere autonomo con causa propria, ma appartengono alle società tipiche regolate dal Codice civile, e che il loro reddito complessivo è considerato reddito d’impresa.

Risulta evidente, da anni, la spinta del legislatore a favorire le aggregazioni professionali e, in particolare, l’esercizio, anche in forma societaria, tanto delle professioni regolamentate quanto di quelle non organizzate in ordini e collegi.

Sotto diverso profilo, è del pari evidente che, quanto alle società tra avvocati, la disciplina contenuta nell’art. 4-bis della L. 31.12.2012, n. 247, necessita di una più compiuta regolamentazione in quanto quella vigente è limitata ad indicazioni di carattere generale, rivelandosi, quindi, insufficiente sul piano operativo, e che, a tal fine, opportuno sarebbe l’abbondono, in materia, dell’approccio per normative settoriali e per singole professioni.

La proposta ANF

È necessario prevedere lo strumento delle aggregazioni professionali nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza con la programmazione di interventi normativi volti a:

  1. abbandonare l’approccio per normative settoriali e singole professioni e introdurre nell’ordinamento giuridico norme specifiche che rendano i modelli societari attualmente previsti dalla disciplina codicistica compatibili con l’esercizio delle attività professionali, regolamentate e non;
  2. armonizzare le disposizioni speciali contenute nell’art. 4-bis della L. 31.12.2012, n. 247, con quelle generali contenute nella L. 12.11.2011, n. 183, soprattutto con riferimento alla possibilità di esercitare la professione in forma societaria anche nelle forme previste dalla L. 183/11, all’individuazione del socio di investimento, alla possibilità di prevedere l’esercizio di più attività professionali e alle incompatibilità;
  3. qualificare i redditi prodotti dalla società tra avvocati quali redditi di lavoro autonomo anche ai fini previdenziali, ai sensi del capo V del titolo I del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al DPR12.1986, n. 917, e successive modificazioni;
  4. stabilire che l’esercizio della professione forense in forma societaria non costituisce attività d’impresa e che, conseguentemente, la società tra avvocati non è soggetta al fallimento e alle procedure concorsuali diverse da quelle di composizione delle crisi da sovra indebitamento;
  5. introdurre agevolazioni fiscali e misure favorevoli di tassazione al fine di agevolare tutte le forme di aggregazione professionale, la costituzione di società tra avvocati, la costituzione di società multidisciplinari.

 

 

  • L’AVVOCATO IN REGIME DI MONO-COMMITENZA E L’AVVOCATO DIPENDENTE.

Le collaborazioni tra avvocati si inseriscono nel contesto più ampio delle aggregazioni professionali; tra queste, emerge, sicuramente la figura dell’Avvocato in regime di mono-committenza.

L’avvocato in regime di mono-committenza è un tema che l’Associazione Nazionale Forense porta avanti sin dal 2010; otto anni fa, in occasione di un evento tenutosi a Firenze, l’A.N.F. parlò per la prima volta dei sans papier [espressione utilizzata per descrivere la realtà dei colleghi ai quali gli studi professionali presso i quali lavorano forniscono loro la stanza, il computer, finanche il codice civile (o quello penale) e la carta su cui scrivere].

Lo stato dell’arte:

  • la legge professionale forense del 31.12.2012, n. 247, prevede unicamente l’incompatibilità dell’esercizio della professione forense con qualsiasi attività di lavoro subordinato (art. 18);
  • né la legge professionale forense né il codice deontologico forense contengono divieti in ordine alla possibilità di stipulare contratti di “collaborazione” tra avvocati;
  • l’art. 2 della legge professionale forense consente, anche con società, l’instaurazione di rapporti di lavoro subordinato ovvero la stipulazione di contratti di prestazione di opera continuativa e coordinata, aventi ad oggetto la consulenza e l’assistenza legale stragiudiziale, nell’esclusivo interesse del datore di lavoro o del soggetto in favore del quale l’opera viene prestata;
  • l’art. 39 del Codice Deontologico disciplina gli obblighi deontologici relativi ai rapporti tra l’Avvocato ed i “collaboratori dello studio”;
  • l’art. 2 del D.lgs. 15.6.2015, n. 81 (c.d. Job’s Act), consente l’instaurazione di rapporti di collaborazione continuativa organizzata dal committente prestati nell’esercizio di professioni intellettuali, per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali, escludendo l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato (collaborazioni cd. “etero-determinate”);
  • l’art. 15 della L. n. 81/2017 prevede l’applicazione delle norme processuali previste per le “controversie individuali del lavoro” (artt. 409 e ss. c.p.c.) anche ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa organizzata dal collaboratore (collaborazioni c.d. “auto-determinate”);
  • l’art. 3 della L. n. 81/2017 prevede, nei rapporti tra committente e lavoratore autonomo, l’inefficacia di “clausole e condotte abusive”, nonché l’applicazione della disciplina ex art. 9 della L. 18.6.1992 n. 192, in materia di abuso di dipendenza economica;

Sulla scorta di tali premesse, l’Associazione Nazionale Forense ritiene e considera che:

  • i dati reddituali connessi alla trasmissione del Mod. 5 alla Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense confermano la diffusione dei rapporti di collaborazione tra avvocato con altro avvocato, singolo o associato (Cassa Forense ha quantificato in 30.000 avvocati il numero di colleghi il cui unico cliente è rappresentato dall’avvocato o dallo studio professionale presso il quale esercitano la professione);
  • le diverse modalità di svolgimento della prestazione professionale già consentono di ritenere configurabili rapporti riconducibili a diverse fattispecie contrattuali;
  • il rapporto di lavoro, sia di natura subordinata che autonoma, a seguito dell’introduzione dell’art. 4-bis della L. 31.12.2012, n. 247 (esercizio della professione in forma societaria), ad opera della L. 4.8.2017, n. 124, può sorgere anche con società tra avvocati;
  • la sussistenza di un rapporto di subordinazione o collaborazione di un avvocato con altro avvocato singolo o con associazione o società di avvocati non è contraria ai principi di libertà ed indipendenza propri della professione forense, come dimostrato da esperienze di altri paesi europei;
  • resta fermo il principio dell’iscrizione obbligatoria alla Cassa Nazionale Forense previsto dalla legge professionale forense del 31.12.2012, n. 247;
  • è pacifico il principio di diritto di natura giurisprudenziale in forza del quale il concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro e, in particolare, delle effettive modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative determina la disciplina contrattuale da applicare al singolo rapporto di lavoro.

La proposta ANF

L’A.N.F., valutata l’opportunità di un’espressa previsione normativa relativa alla possibilità di instaurare rapporti di lavoro subordinato tra un avvocato e altro avvocato, singolo o associazione o società di avvocati che può svolgersi anche in regime di mono-committenza e, allo stesso tempo, della previsione di requisiti minimi circa la forma ed il contenuto dei rapporti di “collaborazione” tra avvocati, propone che, nell’ambito della previsione dello strumento delle aggregazioni professionali nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, un riferimento espresso riguardi l’avvocato in regime di mono-committenza e le collaborazioni tra avvocati con la programmazione di interventi normativi volti a:

  1. prevedere all’art. 19 della L. 31.12.2012, n. 247, che la professione di avvocato può essere esercitata anche in regime di mono-committenza alle dipendenze di altro avvocato o associazione professionale o società tra avvocati purché la natura dell’attività svolta dall’avvocato dipendente riguardi esclusivamente quella riconducibile ad attività propria della professione forense, giudiziale o stragiudiziale; con l’applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro per i dipendenti degli studi professionali, l’iscrizione obbligatoria in apposito elenco speciale annesso all’Albo e l’obbligatoria previsione che, nel contratto di lavoro, siano previsti l’obbligo per il datore di lavoro di assicurare la piena indipendenza e l’autonomia di giudizio intellettuale e tecnica dell’avvocato e un trattamento economico adeguato alla funzione professionale svolta;
  2. prevedere per i contratti di collaborazione tra un avvocato e altro avvocato, singolo o associazione professionale o società tra avvocati, un “Accordo Collettivo Nazionale Forense sulla disciplina del lavoro Autonomo”, da allegarsi al CCNL per gli Studi Professionali, che ne disciplini il trattamento economico, i requisiti di forma e le fattispecie ritenute di maggiore rilevanza.

 

 

  • L’ACCESSO ALLA PROFESSIONE DI AVVOCATO, IL TIROCINIO PROFESSIONALE, L’ESAME DI ABILITAZIONE.

Una riforma strutturale della professione di avvocato passa sicuramente attraverso la riforma del sistema di accesso, come tale ben suscettibile di rientrare nell’ambito di quel piano di riforme che possono rilanciare, anche in ottica concorrenziale, il comparto delle libere professioni.

Anche alla luce dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, qui di seguito le principali norme che regolano il tirocinio forense e l’esame di abilitazione:

  • il tirocinio forense è regolato dagli artt. 40-45 della L. 31.12.2012, n. 247, e dal Decreto del Ministero della Giustizia n. 70 del 17.3.2016 e dal Decreto del Ministero della Giustizia n. 58 del 17.3.2016 (tirocinio presso gli uffici giudiziari);
  • le scuole forensi obbligatorie ai fini del tirocinio forense sono regolate, in particolare, dall’art. 43 della L. 31.12.2012, n. 247, e dal Decreto del Ministero della Giustizia n. 133 del 5.11.2018;
  • l’esame di abilitazione è regolato dagli art. 46-49 della L. 31.12.2012, n. 247, dal Decreto del Ministero della Giustizia n. 48 del 25.2.2016 e dal Regio Decreto-legge 27.11.1933, n. 1578;
  • il decreto del Ministero della Giustizia n. 80 del 9.6.2020 (dopo quello del 5.11.2018, n. 133) ha rinviato al 1° aprile 2022 la decorrenza degli effetti del DM 17/2018 (impugnato dinanzi al TAR Lazio dalla sede ANF di Bari) che disciplina le modalità di istituzione e di iscrizione dei corsi obbligatori di formazione ai fini della pratica forense;
  • il decreto-legge n. 162 del 30.12.2019, convertito con L. 28.2.2020, n. 8, ha rinviato al 2022 (modificando l’art. 49 della L. 247/12) lo svolgimento dell’esame di abilitazione secondo le nuove disposizioni previste dalla legge ordinamentale 31.12.2012, n. 247.

Inoltre, in piena emergenza sanitaria da Covid-19, il decreto-legge 8.4.2020, n. 22, art. 6, comma 3, convertito in L. 6.6.2020, n. 41, ha stabilito che:

  • il semestre di tirocinio professionale all’interno del quale ricade il periodo di sospensione delle udienze dovuto all’emergenza epidemiologica è da considerarsi svolto positivamente anche nel caso in cui il praticante non abbia assistito al numero minino di udienze di cui al DM 17.3.2016, n. 70;
  • per coloro che hanno conseguito laurea entro il 15 giugno 2020, ossia entro il termine di proroga dell’anno accademico 2019-2020 come previsto nel decreto-legge 18/2020, la durata del tirocinio professionale è ridotta a 16 mesi.

Sicuramente, due sono le principali criticità che oggi caratterizzano – in negativo – l’esame di abilitazione:

  • l’assenza di garanzie che la correzione degli elaborati scritti e lo svolgimento delle prove orali avvengano con criteri omogenei a livello nazionale;
  • modalità di svolgimento delle prove anacronistiche e del tutto inefficaci a valutare la preparazione del giovane professionista.

L’esame per l’abilitazione deve rappresentare il momento in cui il giovane aspirante è chiamato a dimostrare, attraverso prove a carattere teorico–pratico, le abilità professionali acquisite durante il periodo (formativo universitario legale-forense e quello) di tirocinio.

La legge di riforma del 2012, invece, non ha innovato in alcun modo l’esame per l’abilitazione, ma si è limitata a rendere più difficile e, probabilmente, assai più costoso il periodo di tirocinio.

Il sistema delineato dalla L. 247/12 non è per nulla favorevole alle nuove generazioni: non solo è stato integralmente confermato il meccanismo (non ancora in vigore) delle Scuole Forensi obbligatorie (con ciò da una parte limitando gravemente la libertà del singolo, obbligato a formarsi esclusivamente in Italia in un mondo che ha sempre meno confini, e dall’altra aggravando economicamente l’accesso alla professione, poiché è evidente che le scuole, se di qualità, non potranno essere gratuite), ma sono state confermate, pari pari, le attuali modalità di svolgimento dell’esame di Stato (tre prove scritte e una orale), con ciò riproponendo modalità di selezione che hanno dato pessima prova nel corso degli ultimi anni.

Anzi, l’esame di Stato è stato reso ancora di più “un terno al lotto” poiché è stata eliminata (a partire da dicembre 2022) la possibilità di utilizzare i codici commentati e sono state introdotte modalità di votazione molto più severe.

Senza che tutto questo riesca a tradursi in una garanzia effettiva di maggior qualità.

Ecco, quindi, che le considerazioni che precedono e le perplessità manifestate rispetto al contenuto dei disegni di legge AC 2334 e AC 2687, sono formulate nell’ambito di una visione d’insieme fortemente caratterizzata:

  • dalla necessità di affermare e ribadire che quello per l’esercizio della professione è e deve rimanere un esame di abilitazione e non deve assumere le sembianze di un concorso (simile a quello per notai e magistrati);
  • dal rispetto dell’art. 1, comma 2, lettera d), della legge ordinamentale forense 31.12.2012, n. 247, che stabilisce che l’ordinamento forense “favorisce l’ingresso la professione di avvocato l’accesso alla stessa, in particolare le giovani generazioni, con criteri di valorizzazione del merito”;
  • dalla consapevolezza che allo stato, ai fini della prescritta pratica, sono sufficienti solo sei mesi presso un avvocato iscritto all’ordine, ben potendo il praticante svolgere i restanti dodici mesi di tirocinio nelle forme diverse previste dalla L. 247/12;
  • dal rispetto di quanto previsto dal decreto legislativo 16.10.2020, n. 142, di attuazione della direttiva 2018/958 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 28.6.2018, che sottopone a un test di proporzionalità l’adozione di nuove disposizioni legislative o regolamentari o amministrative generali che limitano l’accesso alle professioni regolamentate, o la modifica di quelle esistenti (la professione forense rientra nell’ambito della disciplina del D.lgs. 142/2020 per l’espresso richiamo ivi contenuto al D.lgs. 9.11.2007, n. 206);
  • dalla necessità di dover salvaguardare il diritto di libera scelta dei percorsi formativi in capo al praticante posto che già l’ordinamento professionale gli riconosce la possibilità di svolgere il tirocinio professionale con modalità diverse e addirittura in altro paese europeo presso avvocati abilitati all’esercizio della professione;
  • dalla necessità di abbandonare le attuali e tradizionali modalità di svolgimento dell’esame di abilitazione.

Da ultimo, le recenti riforme processuali – seppure allo stato provvisorie – e l’introduzione dell’udienza cartolare dovrebbero/potrebbero indurre le Istituzioni competenti a rivedere il concetto dipartecipazione all’udienza”, sino ad oggi uno dei capisaldi del tirocinio professionale in funzione dell’esame; di ciò dovrà necessariamente tenersi conto in futuro, soprattutto se, come sembra, alcune modifiche da provvisorie sono destinate a diventare definitive.

La proposta ANF

Della necessità di rivedere il percorso formativo universitario si è detto in apertura delle presenti note; tuttavia, in questa sede, ci si limita a formulare possibili proposte nel solco della legge ordinamentale vigente, pur sempre possibili in assenza (o in attesa) di una rivisitazione del percorso formativo universitario.

Le proposte, quindi, sono conseguenziali a quanto sin qui illustrato; libertà di formazione, scuole forensi facoltative, un primo test con quesiti a risposta multipla o breve con correzione automatica e con un numero minimo di risposte esatte da rispettare, un atto scritto a scelta del candidato tra (per esempio, tre) tracce messe a disposizione dalla Commissione, la discussione orale di un caso pratico (per esempio, nella materia indicata dal candidato all’atto della domanda , scelta tra quelle indicate dalla legge – non solo civile, penale o amministrativo quindi –, discussione in sede giudiziale o illustrazione di un parere, completato dalla illustrazione degli istituti giuridici sottostanti), l’uso della tecnologia per assicurare omogeneità e la gestione di grandi numeri (così come è avvenuto per l’ultimo concorso “Orlando” per gli operatori di cancelleria, senza trascurare l’ipotesi e la fattibilità di un esame “nazionale” per l’abilitazione), possono rappresentare un primo passo di una reale riforma del sistema di accesso.

 

 

 

  1. IL COMPARTO GIUSTIZIA
    • Considerazioni generali e digitalizzazione.

Lo stanziamento totale per questo intervento è di due miliardi, a cui si aggiungono risorse complementari per un miliardo e 10 milioni dagli stanziamenti della legge di bilancio”; questa è l’introduzione delle misure destinata dal PNRR all’innovazione organizzativa della giustizia.

L’introduzione è importante.

È importante perché, nell’immaginare gli interventi per migliorare il funzionamento della giustizia in Italia, occorre tener presente, da un lato, che in tutti questi anni la giustizia italiana non è mai stata sotto-finanziata, in quanto lo 0,3% del PIL destinato al comparto giustizia è (stato) in linea con la media degli altri stati europei, e, dall’altro, che le riforme processuali degli ultimi dieci anni non hai toccato le reali criticità del sistema e non hanno mai dato i risultati sperati.

Le risorse del PNRR, a nostro avviso, quindi, devono mirare innanzitutto alla definizione dell’arretrato civile, al completamento del processo telematico in tutte le giurisdizioni nonché alla digitalizzazione e allo sviluppo di metodi manageriali di organizzazione del lavoro degli uffici giudiziari.

Nell’attuale bozza del PNRR, i progetti di riforma del comparto giustizia appaiono deboli e lacunosi, limitandosi esclusivamente sulla proposta di rafforzamento dell’ufficio per il processo e sulle immissioni in via straordinaria di magistrati onorari. Sono ricette limitate e di corto respiro per un problema di dimensioni mastodontiche: basti pensare che, quanto all’arretrato civile, i dati al 30 settembre 2020, registrano l’ennesimo aumento delle cause ultra-triennali pendenti dinanzi ai tribunali: sono 352.481 rispetto alle 337.740 del 31.12.2019. Quelle ultra-biennali dinanzi alle Corti d’Appello sono 100.235 rispetto alle 98.371 del 31.12.2019 e continuano ad aumentare quelle ultra-annuali in Cassazione (86.011 rispetto alle 78.687 del 31.12.2019).

I procedimenti civili complessivamente pendenti alla data del 30.9.2020 sono 3.334.119 rispetto ai 3.293.960 del 31 dicembre 2019.

Occorre, pertanto, una programmazione di interventi mirati e diretti innanzitutto a:

  • completare la telematizzazione del processo civile e penale, sino alla Corte di Cassazione, nonché dei processi di tutte le giurisdizioni;
  • introdurre il processo telematico negli uffici del Giudice di Pace;
  • estendere l’obbligatorietà del “telematico” a tutti i provvedimenti dei magistrati;
  • completare i processi di gestione e conservazione digitale degli atti;
  • riformare la digitalizzazione nella giustizia con modalità omogenee – anche attraverso un’unica piattaforma per i processi telematici – che possano favorire l’applicazione al mondo della giustizia dei più avanzati esiti della ricerca nel campo dell’apprendimento automatico e dell’intelligenza artificiale;
  • completare, con personale qualificato e con modelli manageriali di lavoro, la costituzione delle 10 direzioni territoriali dedicate alla gestione di beni, servizi ed uffici del comparto giustizia, prevista dalla legge di bilancio del 2020;
  • assicurare che tutto il comparto giustizia (le amministrazioni centrali, le strutture carcerarie, gli uffici periferici, ecc.) operi in modalità digitale nel rispetto delle norme in materia di privacy;
  • eliminare, con norma primaria, la discrezionalità dei capi degli uffici giudiziari e dei presidenti di sezione nell’adozione di protocolli para processuali;
  • incentivare la preparazione specifica e la valutazione delle capacità organizzative di chi aspira la dirigenza di uffici giudiziali e favorire l’introduzione di criteri e figure manageriali nella organizzazione del lavoro dei magistrati, nella gestione degli uffici giudiziari, nella definizione dell’arretrato civile tramite giudici togati;
  • disciplinare espressamente l’anomalia rappresentata dall’eccessivo numero di magistrati fuori ruolo negli uffici del Ministero della Giustizia;
  • riformare l’assetto dell’ordinamento giudiziario con un maggiore coinvolgimento dell’Avvocatura nell’amministrazione centrale della giustizia e nei consigli giudiziari;
  • armonizzare in un testo unico tutti gli strumenti di risoluzione alternative delle controversie e riordinare i rispettivi ambiti di operatività.

 

 

  • Il processo penale.

Nel riprendere il contenuto del disegno di legge delega AC 2435 e considerata anche la legislazione emergenziale da Covid-19, le proposte dell’Associazione Nazionale Forense sono nel senso di implementare il processo telematico penale, privilegiando la sua dimensione dinamica e favorendo assegnazioni di risorse finanziarie e di personale adeguato.

In tale direzione, occorre altresì individuare quelle fasi del processo penale e quelle attività per le quali è possibile ricorrere, senza pregiudizio alcuno delle garanzie di difesa, all’udienza da remoto e al processo cartolarizzato.

Poiché quella delle indagini preliminari è la fase del processo che presenta maggiori criticità, ivi consumandosi gran parte del termine di prescrizione dei reati, è necessario intervenire normativamente sulla fase delle indagini preliminari segnatamente al fine di:

  • introdurre termini di natura perentoria, con particolare riguardo al delicato potere del P.M. di esercitare l’azione penale entro un termine prefissato, prevedendo espressamente delle sanzioni processuali in caso di mancata osservanza;
  • rimodulare (non solo il profilo tecnologico ma) tutta la normativa di attuazione in ordine alla tenuta e gestione dei registri relativi alle notizie di reato, custoditi presso le Procure, al fine di prevenire la diffusa e disinvolta prassi di eludere il termine di durata complessiva della fase delle indagini preliminari;
  • evitare in tema di notificazioni il trasferimento di competenze e obblighi, proprie della P.G. e degli ufficiali giudiziari, in capo al difensore di fiducia e di ufficio.

Quanto al regime delle impugnazioni, l’Associazione esprime contrarietà rispetto al giudizio monocratico di appello, considerato che la riforma del mandato ad impugnare porterà enormi benefici e potrebbe essere sufficiente senza ulteriori restrizioni; viceversa, sarebbe auspicabile ripristinare le norme previgenti alla Riforma Orlando (L. 103/2017) in tema di impugnazioni.

È necessario, inoltre, preservare l’attuale regola di giudizio prevista per il GUP di cui all’art. 425 cpp, con particolare riguardo alla funzione di filtro previsto dal comma 3.

Infine, ineludibile è la necessità di una riforma organica dell’ordinamento penitenziario in modo da superare definitivamente le censure della Corte Europea dei Diritti Dell’Uomo e disciplinare ex novo l’esecuzione della pena per assicurare al detenuto, in fase di espiazione, i diritti e le garanzie che gli spettano e il di lui inserimento sociale a pena espiata; cercando di potenziare il più possibile modalità di esecuzione della pena alternative al carcere che siano, ove possibile, siano socialmente inclusive e di tipo riparativo.

Il potenziamento degli organici della Magistratura di Sorveglianza e degli Uffici Uepe rappresenta l’obiettivo strategico e nevralgico della riforma.

Inoltre, sempre nell’ottica di tale riforma, necessaria è la previsione di una giurisdizione specializzata in esecuzione penale per i minorenni, in ragione del fatto che il loro trattamento penitenziario dovrà garantire il rafforzamento e la valorizzazione della loro istruzione e formazione in modo da fornire ai minori criteri guida in funzione del successivo reinserimento sociale.

Più in generale, la riforma può muovere dai punti di approdo, condivisi, dai “tavoli tematici” degli Stati Generali dell’Esecuzione penale (nell’ambito della c.d. riforma Orlando, in parte qua rimasta incompiuta).

A tal fine, per esempio, gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale hanno concluso che lo standard medio in Europa della vita detentiva è senza ombra di dubbio superiore al nostro.

La vita carceraria del detenuto medio in Italia si esaurisce all’interno della cella (camera di sicurezza) con un accesso potenziale alle attività trattamentali[1] molto scarso e con orari molto limitati; ridotta al lumicino è la possibilità di accedere al lavoro, sicché il detenuto è costretto all’ozio forzoso per gran parte del suo soggiorno in carcere, diurno e notturno, ad eccezione delle due ore d’aria al giorno previste.

I rapporti con i familiari (colloqui visivi e colloqui telefonici) sono fortemente limitati, non potendo durare una telefonata, per esempio, per più di dieci minuti, ed è consentita solo in caso di impossibilità del colloquio visivo. Le visite ai detenuti dei minori non avvengono quasi mai in aree separate o adeguate a garantire la riservatezza del colloquio[2], che si svolge sotto il controllo visivo costante del personale di Polizia Penitenziaria al fine di impedire contatti fisici e intimi.

I rapporti intimi e/o affettivi poi sono categoricamente interdetti.

Le limitazioni delle libertà del detenuto, finora elencate, diventano progressivamente più restrittive per i c.d. detenuti sottoposti al regime di massimo rigore di cui all’art. 41 bis O.P. o di sorveglianza particolare di cui all’art. 14 bis (destinatari di provvedimenti di sospensione delle normali regole di trattamento).

La collocazione dei detenuti nei reparti avviene in base a una classificazione finalizzata a neutralizzare la pericolosità del singolo detenuto più o meno problematico, da cui deriva la collocazione in determinati circuiti penitenziari (pericolosi-protetti e differenziati) e relativi sotto-circuiti in base al mero titolo di reato.

La classificazione e l’assegnazione del detenuto ai singoli circuiti in questione è molto poco trasparente e priva di fatto di controllo giurisdizionale, essa è rimessa unicamente alle decisioni dell’Amministrazione penitenziari (DAP)[3], ancorché essa produca effetti pregiudizievoli al detenuto seppure motivati da ragioni di sicurezza interna dell’Istituto di Pena.

Tale regolamentazione della vita detentiva, in contrasto stridente con i principi costituzionale interni e non solo, ha indotto alla formulazione delle seguenti proposte:

  • incremento dei rapporti familiari, ivi incluso l’esercizio del diritto all’affettività;
  • adeguamento dello standard tecnologico della vita detentiva per prevenire “l’analfabetismo informatico” nell’ottica di utilizzare lo strumento informatico a fini di studio, svago ed intensificazione dei rapporti affettivi;
  • diritto dell’ergastolano alla camera di sicurezza singola per umanizzare la pena perpetua;
  • valorizzazione del volontariato in carcere al fine di favorire la partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa modificando l’art. 17 O.P. per snellire le procedure di rilascio delle autorizzazioni dei volontari.

Quanto all’esecuzione penale, è emerso chiaramente che per la buona riuscita della riforma dell’ordinamento penitenziario, sarebbe urgente e opportuno intervenire contestualmente sul sistema sanzionatorio modificando anche il codice penale, in modo da ridurre significativamente i casi di espiazione della pena in carcere, introducendo pene principali diverse da quelle detentive (artt. 22 e ss. c.p.), come avvenuto in altri Paesi come la Francia, il Regno Unito e la Germania.

L’introduzione di sanzioni penali diverse da quella detentiva ha il notevole pregio di risparmiare risorse economiche che potrebbero più utilmente essere investite nel settore esecuzione penale esterna; modalità di espiazione della pena, questa, che garantisce livelli di sicurezza sociale più alti in quanto, favorendo il reinserimento sociale attraverso il preventivo studio scientifico della personalità, consente di identificare il livello di rischio recidiva del singolo condannato e il suo conseguente indice di pericolosità e, per l’effetto, approntare il trattamento sanzionatorio di tipo “individualizzante” più idoneo in concreto.

In questa ottica la proposta è quella di migliorare complessivamente il contenuto delle misure alternative da un punto di vista qualitativo e quantitativo, rimodulare i benefici penitenziari unitamente ai programmi di trattamento ed essi relativi, preferibilmente sul modello della Spagna, Francia, Inghilterra e Germania.

Per quanto riguarda invece l’esecuzione intramuraria, la riforma dovrà intervenire in modo incisivo:

  • sul sistema delle misure di sicurezza e della cura del disagio psichico (nel rispetto del principio di equivalenza malato detenuto e malato comune);
  • sulle condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari tali da tutelare le donne detenute;
  • sulla tutela delle detenute madri;
  • sulla tutela dei diritti dei detenuti stranieri;
  • sui diritti garantiti durante l’esecuzione e le modalità con le quali assicurarne l’effettività (con particolare riguardo alle materie della salute, del lavoro, dell’istruzione e della dimensione affettiva sul modello approntato dalla Francia).

 

 

2.3. Il processo civile.

Il legislatore, negli ultimi anni, ha introdotto riforme del processo civile nell’ottica dello snellimento dell’arretrato, della deflazione del contenzioso e dell’accelerazione dei processi, ma con risultati non propriamente conformi alle aspettative.

Il mancato raggiungimento di tali aspettative consente di esprimere le seguenti valutazioni:

  • si è registrata negli ultimi anni una diminuzione di contenzioso “in entrata”, dovuta soprattutto alla minore disponibilità finanziaria dei cittadini e delle imprese e all’aumento dei costi di accesso alla giustizia;
  • una caratteristica comune delle riforme procedurali attuate può essere ravvisata nella sempre più incisiva sottrazione del processo all’iniziativa delle parti e nell’attribuzione di un accentuato potere dirigista in capo al magistrato;
  • si deve pertanto ribadire che non esiste la norma procedurale perfetta che sia di per sé in grado, senza interventi strutturali efficaci, di fornire una soluzione positiva al problema;
  • l’Avvocato in tutto ciò non sempre è stato reso “partecipe” delle riforme, sebbene sia “partecipe” del processo, e in ogni caso il diritto vivente di produzione giurisprudenziale limita sempre più gli ambiti di effettiva interlocuzione degli avvocati.

Preoccupazioni sono state già espresse rispetto alle novità contenute nel DDL “Berruti” AS 2284 discusso nel corso della precedente legislatura e, in particolare, rispetto a quelle relative alla generalizzata applicazione al processo monocratico dell’attuale rito sommario (con corrispondenti preclusioni in appello oggi non previste), alla proposta conciliativa/prognostica formulata dal giudice (e alle conseguenze derivanti alla parte che non l’abbia accettata); all’eliminazione del termine, oggi semestrale, di decadenza per l’impugnazione; all’introduzione normativa di concetti laschi quali sinteticità e chiarezza degli atti, forieri di probabili interpretazioni tanto discrezionali da sconfinare nell’arbitrio.

All’indomani del suo insediamento, il Ministro della Giustizia, nell’audizione alla Commissione Giustizia della Camera dell’11 luglio 2018, nell’illustrare le linee programmatiche del suo Ministero, confermate anche all’indomani del mutamento di questa estate della compagine di governo, ha manifestato la volontà “intervenire sul rito del processo civile, tratteggiando, sia per le cause in cui il Tribunale giudica in composizione monocratica sia quelle in cui giudica in composizione collegiale, un unico rito semplificato conformato ai principi del case management e di proporzionalità, con i quali risulta incompatibile un sistema processuale contrassegnato dalla predeterminazione legale dei poteri delle parti e del giudice“, il tutto però nella forma di “interventi chirurgici, volti ad asciugare l’attuale rito esistente, senza dunque stravolgimenti inconsulti, forieri di periodi di lunga e controversa interpretazione giurisprudenziale e dottrinale“.

Peraltro, sul disegno di legge-delega di riforma del processo civile, per quanto noto il testo licenziato – ma non depositato in parlamento – dalla precedente compagine di governo a fine luglio di quest’anno, non è dato sapere se lo stesso sarà ripresentato dall’esecutivo in carica dal 5 settembre scorso, se con lo stesso contenuto o se rivisto, modificato o integrato, sicché non è possibile esprimere alcuna considerazione al riguardo

 

La proposta ANF

L’Associazione Nazionale Forense è del parere che il legislatore, nell’adottare i nuovi provvedimenti annunciati, debba assicurare il rispetto dei seguenti principi:

  1. riconfermare e valorizzare il principio dispositivo del processo civile, nonché garantire il principio del contraddittorio inteso sia in senso formale, che sostanziale e garantire il diritto di difesa delle parti assicurando, soprattutto alle parti convenute, un ragionevole termine per predisporre le proprie difese;
  2. ripristinare, nel giudizio di cassazione, in luogo del rito camerale non partecipato – che è in contrasto con il disposto dell’art. 6 della CEDU – l’udienza di discussione, con partecipazione dei difensori; ovvero, quantomeno, prevedere l’obbligo della comunicazione della relazione scritta alle parti;
  3. approfondita valutazione dell’unificazione dei riti secondo il principio di proporzionalità riferito alle esigenze istruttorie (graduate e/o graduabili), anche mediante previsione di diversi percorsi processuali, prevedendo però che la regolamentazione sia disciplinata per legge, nel rispetto del principio di predeterminazione ex lege del rito;
  4. valorizzare il principio di collaborazione tra le parti ed il giudice, che ora trova piena consacrazione nell’art. 101, comma 2, c.p.c. attraverso l’elaborazione del thema decidendum e del thema probandum quale risultato dell’agire congiunto delle parti con il giudice, anche mediante un sistema progressivo di preclusioni correlate alle attività difensive delle parti che consentano la cristallizzazione del thema decidendum e del thema probandum in due termini processuali diversi;
  5. valorizzazione dell’uso della telematica nel processo civile, riduzione degli scritti endoprocessuali e previsione, nelle controversie instaurate con rito ordinario di cognizione, in caso di contumacia volontaria del convenuto o, nei giudizi con pluralità di parti, di tutti i convenuti, che il giudice, all’udienza di trattazione disponga la prosecuzione della causa a norma dell’art. 702-ter c.p.c.;
  6. valutare l’accentuazione della possibilità di pronunce interinali di condanna immediatamente esecutive, salvo il possibile reclamo al collegio, e sempre revocabili con la sentenza che definisce il giudizio (si tratterebbe in sostanza di pronunce allo stato degli atti sulla scorta di quanto prevede l’art. 423 comma 2 cpc per il “rito del lavoro”);
  7. valutare l’eliminazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni (in assenza di istanza delle parti per la pronuncia di sentenza contestuale) sostituendo la stessa con l’assegnazione di un termine per il deposito telematico del foglio di conclusioni scritte e di successivi termini per il deposito telematico di memorie conclusionali e repliche;
  8. valutare l’introduzione, nei tribunali circondariali, una sezione specializzata che abbia esclusiva competenza su tutte le questioni civili inerenti alle relazioni familiari con applicazione di un rito processuale uniforme, che, pur nell’esigenza di garantire la celerità delle decisioni, non comporti limitazioni delle facoltà delle parti;
  9. riconoscere agli avvocati la possibilità di assumere testimoni, garantendo in ogni caso il contraddittorio fra le parti;
  10. prevedere un maggiore coinvolgimento degli avvocati nelle decisioni adottate dai Consigli Giudiziari.

 

2.4. L’ordinamento giudiziario, il disegno di legge AC 2681.

Su un piano metodologico e più generale non poche perplessità suscita lo strumento della legge-delega (al pari del decreto-legge più volte utilizzato per introdurre riforme di sistema del processo civile e di quello penale), dal momento che l’enunciazione di principi assai generali e l’impossibilità di controllo nella fase dell’adozione dei decreti legislativi delegati non eliminano il serio rischio che vengano vanificati gli obiettivi e le finalità che il disegno di legge si propone di realizzare.

In secondo luogo, tenuto conto di quanto purtroppo sta avvenendo nell’ambito di alcuni Consigli Giudiziari distrettuali (per esempio: Consiglio Giudiziario della Corte di Appello di Bari, quanto al “diritto di tribuna” degli avvocati completamente eliminato), la volontà del legislatore di intervenire sull’ordinamento giudiziario rappresenta l’occasione per realizzare quella collaborazione, sempre auspicata, tra magistratura e avvocatura nell’amministrazione del comparto giustizia.

Il Capo I (artt. 1-5) prevede un’ampia delega legislativa in materia ordinamentale.

La maggior parte degli aspetti oggetto di delega è già all’attualità presidiata da un ampio corredo normativo, che è tuttavia di natura secondaria.

La scelta della normazione primaria e i previsti decreti legislativi, in breve, andrebbero positivamente a fissare norme non solo caratterizzate da una maggiore stabilità, rispetto alla situazione attuale, ma soprattutto connotate da una diretta cogenza rispetto all’attività amministrativa, con la conseguenza che la facoltà di emanazione di norme secondarie appare opportunamente circoscritta e limitata.

Sono condivisibili le scelte di esplicitare che l’attività amministrativa volta alla copertura di posti direttivi e semidirettivi sia soggetta ai principi della L. 241/1990 (art. 2, comma 1, sub. a) e che i procedimenti siano avviati e istruiti secondo l’ordine temporale con cui i posti degli uffici direttivi si sono resi vacanti; sotto quest’ultimo aspetto, al fine di non rendere vana la bontà della disposizione, potrebbe essere utile la previsione di termini ben precisi per la trattazione e l’istruzione della pratica.

In questa ottica, oltre alla pubblicazione sul sito del CSM di tutti gli atti dei procedimenti (art. 2, comma 1, sub. A), l’effettiva partecipazione procedimentale dei candidati, dei rappresentanti dell’Avvocatura, nonché di altri soggetti a conoscenza delle situazioni degli uffici di provenienza, rende il procedimento valutativo più aderente ai fatti e non semplicemente ancorato a valutazioni di professionalità formatesi nel tempo in vigenza di criteri in parte diversi da quelli oggetto di delega (art. 2, comma 1, sub. b).

Ad oggi l’idea e la nozione di managerialità nella gestione degli uffici giudiziari sono previste dal D.lgs. n. 160 del 2006, dal D.lgs. n. 240 del 2006 (che si occupa del “programma della attività annuali” di competenza del magistrato dirigente e del dirigente amministrativo) e dalla produzione para-normativa del CSM.

Tuttavia, proprio le statistiche trimestrali del Ministero della Giustizia e i dati che riguardano i numeri e la capacità di gestire l’arretrato evidenziano più che mai la necessità di ricorrere a criteri anche aziendalistici per evitare che il nuovo contenzioso sia definito senza incidere sull’arretrato esistente e per responsabilizzare il singolo magistrato (le proposte ad oggi note che vorrebbero l’arretrato gestito da giudici onorari e/o da nuove sezioni stralcio legittimano purtroppo la continua deresponsabilizzazione del magistrato e il rifiuto di criteri manageriali nella gestione dell’ufficio e della singola sezione).

Di qui, l’opportunità, accanto alle previsioni contenute nell’art. 2, comma 1, lett. d, di introdurre la figura del court manager, di prevedere una costante attività di rilevazione statistica dei procedimenti, di delineare l’organizzazione di un team tarato sull’organizzazione e sulla gestione dei procedimenti e del loro flusso, di individuare incentivi e forme indipendenti di controllo dell’operato svolto.

Al fine del conferimento di incarichi direttivi o semidirettivi, poi, appare convincente l’esplicita indicazione di criteri di valutazione specificamente attinenti al livello della performance dell’ufficio di provenienza, sotto il profilo delle capacità relazionali e della capacità di coinvolgimento dei Magistrati nell’attività organizzativa (art. 2, comma 1, sub. f ed h).

Questo nell’ottica del tutto convincente di derubricare il dato dell’anzianità da criterio principale a criterio residuale (art. 2, comma 1, sub. i) dovendosi ritenere che la capacità organizzativa sia frutto non tanto di esperienza, ma in particolare di una inclinazione o capacità personale.

Assai condivisibile è l’opinione di chi ritiene che la riforma debba ispirarsi alla generale riflessione di sistema, tra le tante, secondo cui nell’amministrazione del servizio giustizia maggiore debba essere il coinvolgimento dell’Avvocatura; in tale direzione, quindi, sarebbe utile la previsione in forza della quale il CSM tenga conto di un “parere” e non di semplici “osservazioni” del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati (art. 2, comma 1, comma l).

Con riferimento alle norme relative all’organizzazione degli uffici suscita invero perplessità la previsione della possibilità di trasformazione dell’attività consultiva del Consiglio Giudiziario in attività deliberativa, ma solo all’esito del voto (art. 2, comma 2, sub. e.1).

L’ipotesi è che un parere, ove unanime, possa divenire un provvedimento definitivo di approvazione.

In sede di discussione, quindi, il consiglio non sa se sta compiendo un’attività endoprocedimentale ovvero provvedimentale conclusiva del procedimento.

Poiché all’attualità la fase consultiva viene normalmente svolta in un ambito temporale contingentato ed è orientata su un’analisi complessa ma tendenzialmente formale del progetto o delle tabelle, la questione appare invero delicata.

Nell’ipotesi quindi di effettiva coltivazione di detta possibilità, posto che la relativa competenza apparterrebbe al Consiglio Giudiziario in composizione piena, si ritiene – salvo quanto si dirà – che le fasi procedimentali dell’esame debbano essere congrue e parametrate ordinariamente sulle caratteristiche della sede deliberante e non su quella consultiva, onde consentire un esame adeguato e completo.

Nemmeno convince poi l’eventuale introduzione di un silenzio assenso sugli strumenti organizzativi (art. 2, comma 2, sub. e.2), poiché così operando il Consiglio Superiore sarebbe tenuto ad esaminare solo i progetti o le tabelle corredate da parere negativo, così depotenziando la funzione dell’organo rispetto alla necessità di una verifica dei complessivi criteri organizzativi operanti in campo nazionale, sia sotto il profilo dell’omogeneità, sia sotto il profilo della complessiva efficienza di sistema.

Analoghi principi, così come non convincono con riferimento all’adozione del progetto organizzativo o delle tabelle di organizzazione, ben potrebbero invece operare per le variazioni limitate, nelle quali l’attuale previsione di immediata esecutorietà potrebbe diventare approvazione tout court.

Quanto ai consigli giudiziari, occorre preliminarmente evidenziare come ancora oggi, sono tuttora incomprensibilmente inattuati gli artt. 6 e 14, D. Lgs. 25/2006, che con norma primaria prevedono compensi per i componenti non togati del Consiglio Direttivo e dei Consigli Giudiziari, mentre di converso le circolari CSM, norma secondaria, hanno individuato importanti sgravi del carico lavorativo ordinario per i componenti togati.

Trattasi di sgravi espressamente qualificati come non rinunciabili che arrivano al 40%.

La attuale grave penalizzazione economica, unita alla non ammissione dei componenti forensi all’esame della documentazione istituzionale sulla piattaforma COSMAP, costituiscono una differenziazione non comprensibile nel momento in cui ogni componente il Consiglio Giudiziario opera non in rappresentanza di interessi di parte, ma nel solo perseguimento dell’interesse pubblico all’interno di un’attività di verifica di legittimità.

In questo senso, nella consapevolezza che l’arricchimento al dibattito consiliare conseguente ad una diversa esperienza e sensibilità non è un simulacro ma è un dato di sostanza, sembra necessario andare verso una piena equiparazione della dignità dei Consiglieri per assicurare un pieno e proficuo lavoro dell’organo periferico.

Per questa ragione, se è utile prevedere l’introduzione di una facoltà di partecipazione alle trattazioni e deliberazioni attualmente precluse, non si comprende per quali motivi si possa assistere, esaminare gli atti, partecipare alla discussione, concorrere alla formazione di orientamenti, ma non votare.

La preoccupazione per il voto pare un errore prospettico, in quanto i punti che richiedono uno scrupolo ed un’attenzione anche deontologica dei componenti forensi sono per lo più quelli relativi alla conoscenza di atti e situazioni, non certo l’espressione del voto.

Onere degli Ordini e del Consiglio stesso sarà quindi in ogni caso la vigilanza sul rispetto del segreto e della riservatezza, che tuttavia, come è noto, già ora è prevista dai codici etici e deontologici di magistrati ed avvocati.

Quanto alle valutazioni di professionalità, particolarmente opportuna appare l’attività di programmazione delle valutazioni al fine della raccolta dei pareri degli Ordini (art. 3, comma 1, sub b).

Non appare convincente, invece, la facoltà del capo dell’ufficio di confermare senza motivazione l’autorelazione del magistrato (art. 3, comma 1, sub c.1), poiché la rinuncia ad un elemento essenziale del provvedimento amministrativo appare sintomatica di una possibile non assunzione di responsabilità, che sembra invece decisamente rilevante per l’esercizio delle funzioni tipiche delle figure direttive.

Il Capo II (artt. 6-11) prevede modifiche alle disposizioni dell’ordinamento giudiziario.

Appaiono condivisibili le nuove ipotesi di illecito disciplinare (art. 9, comma 1), anche se si reputa che l’occasione di una rilettura del D. Lgs. 109/2006 avrebbe consigliato di depurare le fattispecie di illecito da espressioni dense di connotazioni soggettive, semmai rafforzando la necessità del rispetto dei termini legali per gli adempimenti.

La disciplina dei ritardi, infatti, appare tuttora insoddisfacente e non coerente con la informatizzazione degli uffici introdotta successivamente alle norme in commento.

                                                                         

 2021 2 23 audizione ANF Comm Giustizia Senato Piano Resilienza (1)

                                                                                         A.N.F. – Associazione Nazionale Forense

 

 

 

 

[1] Attività lavorativa, in comune, sportiva e ricreativa.

[2] Come accade in Inghilterra e Galles.

[3] D.A.P. Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria.

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