È ormai imprescindibile trovare soluzioni definitive per i veri nodi irrisolti: accesso all’università, tirocinio professionale e compenso, avvocati monocommittenti e accesso all’albo per il patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori
La crisi economica, che ha colpito anche il mondo delle libere professioni, con conseguente calo dei redditi, e che è stata aggravata da una legge professionale nuova ma assolutamente non innovativa e dalla sostanziale inesistenza di tutele per la giovane avvocatura, porta a ritenere che il Congresso Forense di Rimini potrebbe essere l’ultima spiaggia per tentare di dare una soluzione ai problemi dei giovani avvocati, ai quali negli ultimi anni non sono state date risposte convincenti, ma addirittura peggiorative della situazione preesistente. Numerosi sono gli aspetti sui cui è urgente intervenire, partendo dal sistema universitario per poi finire con una riforma seria della nuova legge professionale n. 247/2012. Una delle cause dell’eccessivo numero di avvocati è l’assenza di limitazioni all’ingresso della facoltà di giurisprudenza e la scarsa selezione durante il corso di studi. A tal proposito andrebbe considerata l’introduzione del numero chiuso nella facoltà di giurisprudenza, come già chiesto nella mozione, a firma Dario Greco e Nicoletta Giorgi, approvata al Congresso Forense di Bari del 22-24 novembre 2012 e purtroppo rimasta inattuata. Tale soluzione consentirebbe di ridurre il numero dei futuri professionisti e al contempo permetterebbe agli esclusi di riorientare sin da subito la loro carriera professionale, non come avviene con la nuova legge professionale, che interviene con limitazioni e sbarramenti nei confronti di coloro che hanno già conseguito il titolo di avvocato e ben difficilmente possono modificare la propria carriera. Istituire il numero chiuso nella facoltà di giurisprudenza, inoltre, sarebbe in linea con la L. 264/1999, sull’accesso programmato all’università, che già ora prevede il numero chiuso per i corsi di specializzazione per le professioni legali. Un altro problema è l’assenza di una differenziazione all’interno del corso di sudi di giurisprudenza fra coloro che aspirano a svolgere una professione forense (avvocati e magistrati) o notarile e tutti coloro che mirano ad altre carriere professionali nel settore pubblico o privato.
La differenziazione della formazione universitaria per la carriera forense – notarile rispetto alle altre professioni consentirebbe di rimodulare il percorso di studi incentrando l’attenzione sulle materie fondamentali e sull’esercizio della pratica forense sin dall’università, con conseguente eliminazione delle scuole forensi, riduzione e/o eliminazione della pratica forense e, quindi, ingresso anticipato nel mondo del lavoro. Una volta affrontato e risolto il nodo della formazione universitaria occorrerebbe intervenire con determinazione sulla nuova legge professionale, che, come sopra accennato, introduce delle limitazioni e dei pesi irragionevoli per i giovani, che in teoria hanno già affrontato un percorso lungo e faticoso. Sotto diversi aspetti, infatti, la L. 247/2012 contravviene al principio fondamentale enunciato all’art. 1, comma 2, lett. d), laddove si afferma che l’ordinamento forense ‘favorisce l’ingresso alla professione di avvocato e l’accesso alla stessa, in particolare alle giovani generazioni, con criteri di valorizzazione del merito’. Che l’intento della nuova legge professionale non sia quello di favorire, ma di disincentivare l’ingresso alla professione lo si evince ad esempio dall’art. 43, L. 247/2012, che impone al tirocinante di seguire durante i 18 mesi di pratica un corso formativo di 160 ore. Inoltre, secondo lo schema di decreto del Ministero della Giustizia concernente il regolamento recante la disciplina dei corsi di formazione per la professione forense ai sensi dell’art. 43, l. 247/2012, le Scuole Forensi deputate all’organizzazione dei corsi di formazione di 160 ore nei 18 mesi di tirocinio dovranno essere a numero chiuso (art. 7) e alle stesse si potrà accedere tramite preselezione. Potrebbe pertanto verificarsi il caso che il tirocinante abbia ottenuto la disponibilità di un dominus per lo svolgimento della pratica, ma non riesca ad entrare nella scuola forense per la frequenza del corso di formazione obbligatorio di 160 ore. Inoltre, i corsi di formazione, all’interno dei quali sono previsti, oltre ad una prova di ingresso, anche delle verifiche intermedie, costituite da una prova orale e tre prove scritte, ed un esame finale (art. 8), secondo il regolamento di cui sopra hanno lo scopo di preparare il tirocinante al superamento dell’esame di Stato e non, come sarebbe invece auspicabile, quello di incrementarne la preparazione professionale in vista del concreto esercizio dell’attività forense. Si impone, quindi, una modifica dell’art. 43 della legge professionale prevedendo la facoltatività dei corsi di formazione per l’accesso alla professione di avvocato. Invero sarebbe auspicabile che la formazione fosse volontaria, posto che lo scopo non dovrebbe essere quello di preparare il tirocinante al superamento dell’esame di Stato, ma quello di insegnargli al meglio i principi e le tecniche per lo svolgimento della professione forense. Per di più non è corretto gravare il tirocinante, che in molti casi non ha un compenso nè nei primi sei mesi di tirocinio né successivamente, anche del costo del corso di formazione obbligatorio. Qualora non si riuscisse a modificare la legge professionale, bisognerebbe comunque intervenire sulla bozza di regolamento ministeriale prevedendo che i corsi di formazione non siano a numero chiuso e che abbiano la finalità non tanto del superamento dell’esame di Stato, quanto quella dell’apprendimento della professione forense. Un ulteriore ostacolo che si staglia sulla strada dell’aspirante avvocato è quello dell’assenza di qualsiasi certezza in merito al percepimento di un compenso durante il tirocinio. Ancora una volta la nuova legge professionale, di là dal favorire l’accesso delle nuove generazioni all’avvocatura, in contrasto con l’art. 40 del Codice Deontologico, prevede all’art. 41, comma 11 che al tirocinante dopo il primo semestre di pratica possa essere riconosciuto in via eventuale un compenso adeguato, tenuto conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio. La prassi di non corrispondere alcun compenso al praticante ha contribuito a determinarne un aumento numerico nel corso degli anni, poiché gli stessi sono forza lavoro pressoché a costo zero per il dominus. Un effetto ulteriore è stato quello dell’assenza di selezione dei migliori e dei più meritevoli. Anche in questo caso sarebbe indispensabile intervenire con urgenza sulla legge professionale per introdurre una serie di correttivi. In primo luogo prevedendo un compenso minimo per il tirocinante, il tutto oltre al rimborso delle spese. Tale soluzione, oltre ad attribuire un valore al lavoro del tirocinante, di cui verrebbero tutelati i diritti, consentirebbe di selezionare i praticanti migliori. Il dominus, infatti, Rimini, l’ultima spiaggia per la Giovane Avvocatura dovendo corrispondere un compenso minimo,
sarebbe incentivato a scegliere i tirocinanti più competenti. Il compenso si tradurrebbe in un investimento sulla formazione del tirocinante, con conseguente interesse a trattenere il praticante nello studio per aumentarne le dimensioni, le competenze e la competitività. In secondo luogo l’obbligo della corresponsione del compenso al tirocinante dovrebbe scattare non dal sesto mese, ma dal terzo mese, ciò al fine di evitare che il dominus cambi con frequenza semestrale il tirocinante al fine di sottrarsi al pagamento del compenso. In terzo luogo bisognerebbe introdurre l’obbligo per il dominus di comunicare al Consiglio dell’Ordine le ricevute del pagamento del compenso al tirocinante, così come avviene, ad esempio, per gli aspiranti giornalisti, che, al fine di ottenere il certificato di compiuta pratica, devono dimostrare che la propria attività giornalistica è stata retribuita. In quarto luogo sarebbe opportuna la modifica dell’art. 40 del codice deontologico forense, introducendo una sanzione disciplinare più grave di quella dell’avvertimento, attualmente prevista per il mancato pagamento del compenso al tirocinante. Da ultimo sarebbero necessari maggiori controlli obbligatori da parte del Consiglio dell’Ordine sull’esercizio effettivo della pratica, al fine di verificare l’adempimento dell’obbligo formativo del tirocinante da parte del dominus. Una volta superato l’esame di Stato il giovane avvocato, tuttavia, non ha di certo terminato le sue sofferenze, poiché, quantomeno nei primi anni, non svolgerà l’attività di un libero professionista, ma sarà di fatto un dipendente di un altro avvocato e percepirà un compenso molto basso senza avere le garanzie tipiche di un dipendente. In particolare lo stesso dovrà detrarre dal proprio misero compenso i contributi previdenziali, non avrà un trattamento di malattia, né un preavviso o una liquidazione in caso di scioglimento del rapporto di lavoro. Tale fenomeno, noto con il nome di avvocati sans papier, ovverosia avvocati senza proprie pratiche, è molto diffuso, in quanto molti studi professionali necessitano per il proprio funzionamento della collaborazione esclusiva di altri avvocati. Il tema degli avvocati monocommittenti, tuttavia, non è stato disciplinato dalla nuova legge professionale, che non prevede la figura dell’avvocato dipendente, ed è stato completamente dimenticato nel disegno di legge sul lavoro autonomo, che si occupa solamente delle tutele nel rapporto contrattuale fra libero professionista e cliente. Anche in questo caso bisognerebbe intervenire sull’art. 18 della legge professionale mutuando, per esempio, l’idea espressa dall’Avv. Emanuele Spata nel 2010, all’epoca componente del Direttivo dell’Associazione Nazionale Forense, e ribadita il 17 marzo 2016 nel convegno sulla giovane avvocatura tenutosi a Bergamo, secondo cui bisognerebbe prendere atto della realtà dei fatti e sarebbe opportuno introdurre varie forme di subordinazione per l’avvocato. In primo luogo una figura di avvocato dipendente da un altro avvocato e non da una società, in cui l’avvocato lavora esclusivamente per il titolare dello studio. Tale forma di collaborazione, come avviene nel sistema francese, potrebbe essere disciplinata da un contratto collettivo nazionale, che preveda, oltre ad un compenso minimo, anche delle forme di tutela per quanto riguarda il trattamento di malattia e il preavviso minimo in caso di cessazione del rapporto di lavoro. Per quanto riguarda la materia previdenziale, il dominus dovrebbe essere tenuto a corrispondere ad una gestione separata della cassa quantomeno l’importo pari alla riserva matematica necessaria a garantire all’avvocato la pensione minima. In secondo luogo si potrebbe prevedere anche un avvocato parasubordinato, che, quindi, pur lavorando fisicamente nella struttura del dominus, non gestisca solo pratiche di quest’ultimo, ma abbia la possibilità di seguire propri clienti. Il rapporto di lavoro in questo caso, come avviene nel sistema francese, dove c’è circa un 36% di avvocati parasubordinati, potrebbe essere regolamentato da una contrattazione a livello regionale, in cui si stabilisca un compenso minimo e tutele per la malattia e il preavviso. Per quanto riguarda la previdenza, in questo caso ci dovrebbe essere l’obbligo dell’avvocato parasubordinato di contribuire al pagamento degli oneri previdenziali sulla base dei proventi derivanti dalle sue pratiche. La proposta di cui sopra avrebbe il vantaggio di sanare e chiarire l’attuale situazione priva di qualsiasi regolamentazione. Ovviamente si assisterebbe ad una riduzione del numero degli avvocati, posto che il dominus sarebbe costretto a versare un compenso minimo ai propri collaboratori. Tale risvolto potrebbe tuttavia innescare un circolo virtuoso, posto che l’obbligo di corrispondere un compenso indurrebbe a scegliere i professionisti migliori e più meritevoli e provocherebbe un meccanismo di maggiore fidelizzazione del collaboratore allo studio, con conseguente aumento delle dimensioni dello stesso, delle sue competenze e del grado di specializzazione. Tutto ciò avrebbe inoltre ricadute positive sulla competitività e redditività dello studio. Per quanto riguarda gli aspetti fiscali, sarebbe opportuno istituire dei regimi fiscali agevolati per la figura dell’avvocato subordinato e/o parasubordinato, anche per favorire l’emersione di tali forme di collaborazione. Rimini, l’ultima spiaggia per la Giovane Avvocatura Un ultimo esempio indice della volontà della nuova egge professionale di ostacolare l’ingresso e la permanenza delle nuove generazioni nel mondo dell’avvocatura è la nuova disciplina relativa all’iscrizione nell’albo per il patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori. L’art. 22 della L. 247/2012 ha modificato la precedente disciplina per l’accesso all’albo per il patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori. La nuova disciplina si applica a tutti coloro che non abbiano maturato 12 anni di iscrizione all’albo entro 4 anni dall’entrata in vigore della legge professionale, requisito sufficiente per il conseguimento del titolo di cassazionista secondo la vecchia disciplina. L’art. 22, in particolare, prevede che dopo 8 anni di iscrizione all’albo, per diventare cassazionisti, ci si debba iscrivere ad un corso trimestrale organizzato dalla Scuola Superiore dell’Avvocatura, al quale si può partecipare solo previa preselezione. Tuttavia si può accedere alla preselezione esclusivamente se si sono patrocinati nei 4 anni precedenti in via alternativa 10 giudizi innanzi ad una Corte di Appello Civile, 20 giudizi innanzi ad una Corte di Appello Penale o 20 giudizi innanzi alle giurisdizioni amministrative, tributarie o contabili. Il corso trimestrale di 100 ore si tiene a Roma, con la possibilità di svolgere un terzo delle lezioni presso gli Ordini distrettuali, anche con modalità a distanza. La nuova disciplina si applica a tutti e, quindi, anche a coloro che si siano iscritti all’albo prima dell’entrata in vigore della nuova legge professionale, ma non abbiano maturato 12 anni di iscrizione all’albo entro quattro anni dall’entrata in vigore della nuova legge. Il nuovo art. 22, L. 247/2012 crea una disparità di trattamento tra gli avvocati italiani e quelli comunitari iscritti all’albo separato degli avvocati stabiliti, che possono conseguire il titolo di cassazionista in Italia con il semplice decorso di 12 anni di iscrizione nel rispettivo albo nazionale di appartenenza. Inoltre il regolamento del CNF attuativo dell’art. 22. L. 247/2012 prevede dei requisiti di accesso alla Scuola Superiore dell’Avvocatura eccessivamente penalizzanti per gli avvocati collaboratori di studio (i sans papier), i quali, non essendo titolari delle cause dagli stessi patrocinate, non raggiungeranno mai il numero di cause patrocinate nei 4 anni precedenti innanzi ad una Corte di Appello Civile, Penale o alle giurisdizioni amministrative, tributarie o contabili. Non si possono poi sottacere i notevoli disagi economici e la considerevole sottrazione di tempo all’attività professionale, dal momento che la sede del corso è a Roma e le lezioni hanno una frequenza di 10 ore a settimana, distribuite fra venerdì pomeriggio e sabato mattina. In conformità a quanto richiesto dalla mozione n. 20 approvata al Congresso Forense di Venezia e al contenuto dei ricorsi giurisdizionali proposti da varie sedi di ANF contro il regolamento del CNF attuativo dell’art. 22, L. 247/2012 (Bergamo, Bari, Vasto, Pescara, Napoli e Bologna), sarebbe opportuno abrogare l’art. 22, L. 247/2012 e ritornare alla vecchia disciplina, che consentiva l’iscrizione nell’albo per il patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori con il semplice decorso di 12 anni di iscrizione all’albo. In ogni caso sarebbe, comunque, indispensabile modificare il regolamento attuativo dell’art. 22 sotto due profili. In primis, al fine di rendere possibile il conseguimento del titolo di avvocato cassazionista anche agli avvocati sans papier, bisognerebbe eliminare come requisito per l’accesso alla preselezione per l’ammissione al corso presso la Scuola Superiore dell’Avvocatura quello dell’aver patrocinato negli ultimi 4 anni in via alternativa 10 giudizi innanzi ad una Corte di Appello Civile, 20 giudizi innanzi ad una Corte di Appello Penale, 20 giudizi innanzi alle giurisdizioni amministrative, tributarie o contabili. In secundis, per favorire la massima partecipazione possibile alla Scuola Superiore dell’Avvocatura, bisognerebbe istituire delle sedi distaccate della Scuola, quantomeno a livello di ogni singolo distretto, presso cui si possano seguire le lezioni del corso trimestrale previsto dal regolamento attuativo. Tanti sono i nodi irrisolti e anzi aggravati dalla nuova legge professionale. Al Congresso Forense di Rimini l’Associazione Nazionale Forense si farà portavoce delle istanze della giovane avvocatura e si batterà per l’approvazione di mozioni che propongano soluzioni equilibrate e responsabili, come quelle sopra esposte, al fine di conseguire finalmente l’obiettivo di favorire realmente l’ingresso delle giovani generazioni nel mondo dell’avvocatura.
di Giovanni Bertino
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